Brevi riflessioni sulla pace.
È il 22 settembre 2025. Siamo a Napoli, presso Nureco Cooperativa Sociale (Ponticelli, Centro Polifunzionale Ciro Colonna). Un gruppo di operatori – psicologi, educatori e insegnanti – attivi in istituti scolastici diversi, si ritrova riunito durante lo sciopero nazionale per la pace. Nel mentre di una protesta collettiva contro guerre e deprivazioni nel mondo, si confrontano e dialogano per promuovere una prospettiva di nonviolenza civile e democratica: aspetti sensibili che sembrano ormai andare in caduta libera.
Nella periferia orientale di Napoli, come in molte periferie del mondo, ci si sente sempre un po’ sotto assedio, sull’orlo della paura di un agguato possibile. La sensazione è quella di essere costantemente a rischio di un’imboscata. L’essere colti alla sprovvista, senza preavviso, da eventi inaspettati e imprevedibili, si realizza quasi quotidianamente. Lì, dietro l’angolo, si incontra il rischio di una minaccia di morte: la crudeltà, da parte di un altro essere umano, appare all’orizzonte molte volte sicura come l’alba.
Il gruppo riflette quindi sul vissuto precario di chi vive ai margini della società e conosce l’esperienza del terrore: una potenziale e imminente catastrofe umana fatta di armi che distruggono e di sguardi morenti prima ancora che la morte concreta sopraggiunga. È la guerra attuale, che sembra una lunga e infinita agonia. È il nostro silenzio, rimasto tale per troppo tempo, che ha lasciato in solitudine i popoli oggi in guerra. È il nostro buonismo che ha creduto si potesse convivere con una pace momentanea e illusoria e che, invece, ha soffocato dolore e rabbia.
Probabilmente l’indifferenza e il disinteresse verso conflitti armati protratti da tempo immemore, in forma latente, sono stati da sempre ingredienti velenosi di una violenza insidiosa, sotterranea, invisibile. Una violenza dalla quale ci crediamo immuni e lontani, pensando che riguardi gli altri e non noi. Forse per questo abbiamo rivolto attenzione e sgomento soltanto negli ultimi mesi, nei giorni più tragici di guerre e morti nel mondo, quando l’uomo sembra aver davvero smarrito la strada dell’umanità. Ma prima, noi dove eravamo?
Una parte del gruppo ricorda che l’odio è un sentimento umano e, come tale, può incontrare la ragione e il senso di giustizia. Diverso è invece il vuoto che attraversa gli individui delle guerre contemporanee: l’essere inebetito di chi dice di combattere e che, nel suo lottare, distrugge e svilisce se stesso. Un vivere che svuota l’essenza dell’uomo e la sua esistenza nel mondo. In questo non c’è nulla di eroico.
Le guerre a cui oggi assistiamo come eruzioni esplosive causate da un tempo lungo di incuria, con radici in un antico passato di cecità. Questo vissuto si presenta come un pericoloso automatismo dell’individuo, che va avanti nel mondo come fosse copia di qualcun altro, un replicante. Assistiamo a conflitti tra esseri senza corpo e senza anima, persone quasi irreali, la cui mente appare spesa. Una non-vita che aspira a cancellare se stessa e l’altro senza pietà. Chi distrugge sente di essere già stato distrutto: lo è il suo mondo interno, ridotto ad avanzo, a niente, a un non-desiderato. “Se io non posso esistere e vivere, nessun altro può.” Lo sterminio si ripete: l’altro è il sintomo da annientare. Le “nuove guerre” non hanno più soldati né civili: sono anticipo di guerre robotiche, se già non lo sono.
La discussione alza un grido di allarme e resistenza contro la tentazione del potere attrattivo della distruttività, imponendo uno sguardo rivolto alla vita per sostenerla e celebrarla. Circolano parole poetiche che mettono in contatto l’animo umano con speranza e gioia come forme di resistenza. La precarietà, l’inafferrabile, l’impotenza diventano risorse necessarie da cui far partire una reale trasformabilità dell’essere.
Il titolo, attraverso il prefisso ri- , vuole manifestare e reclamare il bisogno infantile di tornare al “prima”, dimenticando angosce e tormenti delle ingiustizie. Per noi diventa invece richiamo al senso di responsabilità e alla funzione del ricordo come contenitore di un dolore traumatico. Un contenitore inteso come nido e non come rifugio, da cui poter ripartire e vivere, finalmente.
Ci chiediamo come mai siamo spesi e assuefatti alle barbarie, addormentati e anestetizzati da un antropocentrismo che non lascia spazio alla vita e non sa stare con l’altro; come mai, da sempre spaventati, non siamo mai davvero indignati e arrabbiati. Intanto, qui e adesso, abbiamo scoperto che è possibile la lotta nonviolenta: una lotta con criteri radicalmente diversi da quella armata, che non lascia feriti in fin di vita, e che risveglia – con uno sguardo “vigile e selvatico” – la cultura della libertà e della giustizia, dell’essere giusti al di là del buono e del cattivo.
“Adesso mi trovo faccia a faccia con la morte, ma non ho ancora concluso con la vita.”
—Oliver Sacks










