Pressenza riproduce, in 10 capitoli, il dossier «Palestina: la pace attraverso il diritto» pubblicato a luglio 2022 da ritimo.Ecco il capitolo 6 :

Questo testo, redatto a giugno 2008 da Bernard Ravenel, storico e giornalista, Presidente della Piattaforma delle ONG francesi per la Palestina, rimane d’attualità.

Le notizie dalla Palestina ci raccontano di una guerra in corso, definita “a bassa intensità” ma sempre più letale. In realtà, è semplicemente “guerra” tout court. Tuttavia, è una guerra particolare: non si tratta dello scontro tra le armate di due stati nemici, bensì tra una delle armate più potenti al mondo e un popolo occupato. Si tratta fondamentalmente di una guerra asimmetrica, paradigma dello scontro Nord-Sud.

L’escalation militare a Gaza, proseguita in Libano e poi ripresa a Gaza, dimostra contemporaneamente che si tratta di una situazione d’urgenza e che il problema del conflitto israelo-palestinese non solo non è risolto, ma si è aggravato a causa della strategia americano-israeliana in Medio Oriente. Oltre alla Palestina, ci sono altri due popoli arabi sottoposti alla guerra israelo-americana, l’Iraq e il Libano, senza dimenticare la Siria, il cui Golan è ancora occupato da Israele. E soprattutto, non bisogna dimenticare l’Iran, minacciato da bombardamenti alle sue installazioni nucleari, il che scatenerebbe una crisi di dimensioni mondiali.

Mai, dalla Seconda Guerra Mondiale, la situazione è stata così grave. Dalla regione del Mediterraneo orientale, il mondo si trova di fronte a una “guerra infinita” che prevede una dimensione nucleare, una guerra potenzialmente distruttiva per l’intero pianeta, sia come realtà sia come minaccia imminente. Una guerra presentata come legittima e prolungabile a piacere, accompagnata da una militarizzazione della vita civile: tutto ciò a partire dalla mancanza di soluzione della questione palestinese, definita come madre di tutti i conflitti da Romano Prodi…

Di conseguenza, la pace diventa un obiettivo strategico. Non possiamo fare a meno di cercare con cautela quali possano essere i percorsi più efficaci, a livello politico, istituzionale e giuridico, per raggiungere oggi una pace “giusta”.

Allo stesso tempo, oggi, la domanda è semplice: Israele deve restituire i Territori occupati nel 1967, sì o no? La ribellione disperata dei Palestinesi cesserà solo se si instaurerà tra le due nazioni una situazione di giustizia con due Stati e garanzie reciproche, si o no?

Certamente, con il suo intreccio di dolori e ingiustizie passate e presenti, la questione israelo-palestinese non assomiglia a nessun’altra. Essa richiede, in particolare per l’Europa, a causa delle sue responsabilità politiche, storiche e morali, un approccio molto articolato. Un approccio che si ricollega alla storia del Medio Oriente contemporaneo e al suo rapporto con l’Europa.

Il bisogno di storia

Per parlare del dramma della Palestina e considerarne l’esito, non c’è bisogno di evocare il destino di questa “terra promessa a due popoli”, come se la Palestina fosse un’anomalia sfuggente alle dinamiche delle altre nazioni e di tutte le formazioni sociali. Sarebbe un’ulteriore offesa rivolta ai Palestinesi, che hanno innanzitutto il diritto alla storia, ossia a storicizzare la propria scelta di essere un paese sovrano e di disporre del suo potere decisionale sulle proprie questioni interne ed esterne.

Tutto ha inizio con l’apparizione della Palestina, nella storia del Medio Oriente contemporaneo, con questo nome e i suoi confini fisici, che sono ancora quelli di oggi.

Il destino della Palestina, come degli altri territori arabi che smisero di far parte dell’Impero ottomano dopo la sconfitta nella Prima Guerra mondiale, fu deciso secondo una politica coloniale classica: senza consultare le popolazioni interessate. Al massimo, negoziavano con alcuni notabili come Hussein, Sharif della Mecca, a cui fu fatta la promessa – non mantenuta – di diventare il sovrano di un regno arabo unificato…

Rispondendo alle sollecitazioni del movimento sionista, il governo britannico, la prima potenza imperiale e coloniale, parlava della Palestina ma non dei Palestinesi. La Dichiarazione Balfour del 1917 si limitava a stabilire che una volta soddisfatto il principio di un “focolare nazionale” per gli ebrei, sarebbero state garantite “le libertà civili e religiose delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina” – tranne che i non ebrei non erano una realtà residuale.

Questa formula strana di tutela per i diritti della stragrande maggioranza della popolazione in Palestina anticipa le future negazioni e la progressiva espulsione degli Arabi palestinesi dalla loro terra. Terra in cui doveva stabilirsi una popolazione di immigrati spinti da un sogno messianico tradotto in pratica politica a partire dal progetto di Theodor Herzl, per porre rimedio ai pogrom contro gli ebrei nell’Europa centrale e orientale.

Da quel momento in poi, per i Palestinesi inizierà a formarsi l’idea nazionale attraverso un passaggio doloroso dalla “nazione araba” globale alla specificità della Palestina. I nazionalisti panarabi consideravano la Palestina come la “Siria meridionale”. Nel frattempo, spogliati delle loro terre, gli Arabi di Palestina conoscono fenomeni di urbanizzazione, proletarizzazione e radicalizzazione sconosciuti nel resto del mondo arabo. Al momento di deliberare e decidere sul futuro del mandato britannico, sembrava normale, “naturale”, fare riferimento al contesto arabo regionale prima di considerare la nazione palestinese. Con questo approccio, la suddivisione della Palestina tra ebrei e arabi decisa dall’ONU il 29 novembre 1947 poteva solo rimanere sulla carta. Furono quindi i governi arabi vicini a reclamare allo Stato ebraico lo spazio e la sovranità di ciò che era attribuito allo “Stato arabo di Palestina”…

In un sistema che riconosce solo gli Stati, la Palestina ha pagato un prezzo elevato per l’assenza di uno Stato, anche se debole.

Dove e come costruire lo Stato palestinese?

L’espulsione che accompagna l’indipendenza di Israele ha pesantemente influenzato la storia del movimento nazionale palestinese. Quali erano il territorio e la frazione di popolo su cui la direzione del movimento doveva concentrarsi per sfuggire alla stretta tra Israele, la politica degli Stati arabi e gli effetti della guerra fredda?

Per anni, Yasser Arafat ha creduto – si illuse – di poter far emergere il futuro Stato palestinese dalle comunità di Palestinesi più sacrificati e quindi più inclini all’azione, e persino alla lotta armata: in Giordania e in Libano. Il “Settembre nero” di Amman nel 1970 e l’esito disastroso dell’inserimento della causa palestinese nei fragili meccanismi costituzionali del Libano sono stati altrettanti errori strategici, ma che si spiegano anche dalle condizioni di divisione e dispersione della Palestina e dei Palestinesi.

Formalmente, la lotta dei Palestinesi aveva un carattere transnazionale, ma nella pratica subiva le pressioni dei vari paesi in cui agiva l’OLP senza riuscire a definire un progetto politico credibile. È stato necessario attendere l’Intifada del 1987 affinché la Palestina tornasse in Palestina. Era la prima volta dall’insurrezione degli anni ’30. Per la massa e le “élites” dei Territori occupati, la priorità era creare lo Stato palestinese dove era emersa una società che, a differenza del microcosmo frammentato dei campi profughi, era dotata di un’economia, di scuole e università, di una classe media e di un’opinione pubblica attiva.

Yasser Arafat esalta allora i “bambini delle pietre nati dal seno del nostro popolo amato”. Allo stesso tempo, la dinamica dell’insurrezione popolare non armata ha creato nuove contraddizioni sociali e politiche con un’OLP stabilita a Tunisi dopo la suo espulsione dal Libano nel 1982. A Gaza, l’islam politico si diffonde come alternativa al nazionalismo occidentalizzante dell’OLP.

Ma il merito di Arafat sarà stato, dall’esilio, quello di personificare la Palestina come simbolo dell’unità dei diversi “pezzi” della nazione palestinese e come leader che ritorna, dopo gli accordi di Oslo e la pace di Washington nel 1993, sul suolo di Gaza, Gerico, Ramallah. È per questa ragione che Ariel Sharon si è sempre adoperato contro Abu Ammar orchestrando la sua liquidazione politica e presto fisica. E poi c’è stata la divisione tra Gaza e Cisgiordania. Oltre al ruolo di Hamas nell’opposizione, questa divisione ha un’altra origine: le modalità del ritiro dei soldati e dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza nel 2005.

Il rifiuto di coinvolgere l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) all’epoca guidata da Abu Mazen e dal Fatah nelle operazioni di sgombero di Gaza, unito all’incertezza sul futuro della Cisgiordania, ha trasformato il “ritiro unilaterale” guidato da Sharon non in un passo verso la pace, ma in una dichiarazione di guerra. Israele ha comunicato ai “moderati” come Abu Mazen la sua decisione e il suo potere di tracciare da solo i confini.

Quindi, l’intero progetto dell’OLP/Fatah collassa senza che emerga una nuova strategia credibile. Affrontando la prova elettorale nel 2006, il Fatah, così come le altre forze politiche dell’OLP, perde le elezioni contro l’Hamas. È la fine di una fase storica.

L’ascesa democratica dell’Hamas al potere giustifica per Israele il blocco di Gaza, gli arresti di massa di deputati e ministri palestinesi, e le incursioni quasi quotidiane di aerei e carri armati con la Stella di David.

Nel 2008 ci troviamo qui. Tutta la storia di questo secolo, dalla Dichiarazione Balfour fino ad oggi, passando per l’imposizione del piano di spartizione nel 1947 e la conferenza di Madrid del 1991, dove i Palestinesi avrebbero dovuto essere rappresentati nella delegazione… giordana, dimostra che la questione palestinese è stata caratterizzata dalla costante volontà di Israele, sostenuto in questo dall’Occidente, di impedire con tutti i mezzi la rappresentazione diretta del popolo palestinese affinché possa difendere i propri diritti sulla scena internazionale.

La responsabilità politica e morale dell’Europa: far applicare il diritto

È superfluo parlare di ipocrisia da parte di Stati Uniti, Europa e Israele, di coloro che avevano richiesto elezioni democratiche come condizione preliminare a eventuali accordi. Oggi, l’estrema gravità della situazione in Medio Oriente, trasformata in una polveriera pronta ad esplodere da un momento all’altro, impone, dopo il fallimento della mediazione americana, sia nel processo di Oslo che in quello noto come Annapolis, un’iniziativa europea.

Tuttavia, l’Europa, anche quella parte che ha sempre esibito la cultura del diritto e della legalità, per inerzia, impotenza e soprattutto mancanza di coraggio, dimostra di non aver compreso la vera portata di questo conflitto e continua a procedere tentennando, annunciando, senza esprimere neanche una chiara condanna per i crimini di guerra d’Israele. Continua a considerare Israele come un soggetto al di sopra del diritto e della legalità. Sta persino valutando l’idea di conferire a Israele uno status privilegiato di membro esterno dell’Unione Europea (come è stato fatto per la NATO dagli Stati Uniti).

Questa posizione equivale a un’auto-rinuncia da parte dell’Europa a svolgere un ruolo politico autonomo non solo in Medio Oriente, ma in tutta la zona mediterranea. L’Europa perde così il suo diritto di parola se oggi non si esprime chiaramente, perché oggi è necessario fare tutto ciò che non è stato fatto in Palestina a partire dal 1948 per impedire che la strategia dei “fatti compiuti” degeneri in una tragedia irreparabile.

L’Europa deve prima di tutto proporre misure d’urgenza per fermare l’escalation militare israeliana e proteggere le popolazioni palestinesi. Da qui la necessità di una forza di protezione e interposizione a Gaza e in Cisgiordania con un chiaro mandato delle Nazioni Unite, da qui la necessità di applicare il diritto internazionale espresso dalle Nazioni Unite. Ciò significa che l’Europa deve proporre un meccanismo di negoziazione che affronti l’insieme dei problemi politici della pace in Medio Oriente, ma iniziando dal fattore principale di guerra: l’occupazione israeliana della Palestina.

Ma l’Europa sotto la guida di N. Sarkozy non è disposta a muoversi in questa direzione. Pertanto, per la società civile euro-mediterranea, è necessaria un’interpellazione e una pressione politica costante e forte nei confronti degli attori politici di tutti i paesi euro-mediterranei.

Porsi un obiettivo più modesto significa rifiutarsi di affrontare le sfide: la pace attraverso il diritto internazionale o la guerra i cui effetti non si limiteranno al Medio Oriente.

Quest’opera è messa a disposizione secondo i termini della licenza di Attribuzione – Non all’Utiilizzo Commerciale – Non opere derivate 3.0 non transposta (CC BY-NC-ND 3.0).

Traduzione dal francese di Angelica Mengozzi. Revisione di Thomas Schmid.


I precedenti capitoli del dossier già pubblicati in italiano:

Capitolo 1: https://www.pressenza.com/it/2023/11/palestina-la-pace-passa-attraverso-il-diritto-introduzione-1/

Capitolo 2: https://www.pressenza.com/it/2023/11/palestina-la-pace-passa-attraverso-il-diritto-cartina-e-dati-sulla-palestina-2/

Capitolo 3: https://www.pressenza.com/it/2023/11/palestina-la-pace-passa-attraverso-il-diritto-glossario-3/

Capitolo 4: https://www.pressenza.com/it/2023/12/la-pace-passa-attraverso-il-diritto-cronologia-sulla-palestina-4/

Capitolo 5: https://www.pressenza.com/it/2023/12/la-pace-attraverso-il-diritto-lonu-e-la-questione-palestinese-5/

L’articolo originale può essere letto qui