La «giustizia di transizione» può essere una delle componenti cruciali nel processo di superamento delle conseguenze, dei traumi e delle violazioni legate al conflitto e, in definitiva, di promozione della composizione, della riconciliazione e del processo di pace. Il carattere fondamentale della giustizia di transizione è indicato dall’insieme dei meccanismi, delle procedure e delle attività finalizzate all’espressione e al riconoscimento, nello spazio pubblico, delle responsabilità legate agli eventi della guerra o di violazioni passate, e si basa sul confronto e sul dialogo, sul «racconto della verità», in un contesto di superamento del post-conflitto e di ripristino di una funzionalità democratica. Come segnala infatti l’OHCHR (Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani) «la giustizia di transizione mira a fornire un riconoscimento alle vittime, ad accrescere la fiducia delle persone nelle istituzioni statali, a rafforzare il rispetto dei diritti umani e a promuovere lo stato di diritto, come momento nella direzione della riconciliazione e verso la prevenzione di nuove violazioni».

In termini generali, «la giustizia di transizione comprende l’intera gamma di processi e meccanismi legati alla iniziativa, da parte della società, di confrontarsi con l’eredità di conflitti, repressioni, violazioni passate, al fine di garantire la responsabilità, assicurare la giustizia e conseguire la riconciliazione». In termini più specifici, «questi processi includono meccanismi giudiziari e non giudiziari, tra cui la ricerca della verità, risarcimenti e misure per prevenire il ripetersi di violazioni, tra cui riforme costituzionali, istituzionali e legali, rafforzamento di società civile, iniziative culturali, conservazione degli archivi e riforma dell’insegnamento della storia».

In Europa, una delle regioni in cui più decisiva si avverte l’esigenza di confrontarsi con il passato e superare le eredità del conflitto, per passare dalla tensione, dalla violenza ancora diffusa, o, nel migliore dei casi, la «pace negativa» (assenza di guerra), ad una diversa situazione complessiva nel rispetto del diritto e della giustizia internazionale, dei diritti umani e della giustizia sociale, cioè di «pace positiva» (pace con giustizia), è indubbiamente il Kosovo. Tuttavia, come da più parti sottolineato, l’attuale quadro giuridico del Kosovo non prevede meccanismi funzionanti di giustizia di transizione e non garantisce il diritto al risarcimento per tutte le vittime, comprese quelle colpite dalle violenze successive alla fine “ufficiale” della guerra, vale a dire dopo il raggiungimento degli Accordi di Kumanovo (9 giugno 1999) e l’approvazione della Risoluzione 1244 (1999).

In un Rapporto al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (10 luglio 2023), il Relatore speciale sulla promozione della verità, della giustizia, della riparazione e delle garanzie di non recidiva, Fabián Salvioli, ha osservato che il quadro giuridico per i risarcimenti deve riconoscere «tutte le categorie di vittime della guerra, comprese quelle colpite dopo il giugno 1999 e comunque fino al dicembre 2000», dopo la fine “ufficiale” della guerra. Nel Rapporto inerente alla “missione in Serbia e Kosovo”, documento A/HRC/54/24/2, si legge che «l’obiettivo della missione è di valutare le misure nei settori della verità, della giustizia, della riparazione, della memorializzazione e delle garanzie di non recidiva per affrontare le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale commesse durante i conflitti armati che hanno colpito la regione». In Kosovo, «le autorità hanno intrapreso dal 2012, senza successo, l’elaborazione di una strategia di giustizia di transizione. Nel 2021 è stato istituito un gruppo di lavoro multisettoriale per redigere una strategia con un approccio globale, incentrato sulle vittime e sensibile alla dimensione di genere. Una bozza è in fase di discussione in gruppi di lavoro con diverse parti interessate, comprese le vittime e le comunità di minoranza».

Sulla questione delle persone scomparse, il Rapporto registra che «nell’ultimo decennio i progressi sono rallentati drasticamente a causa della polarizzazione politica. La mancanza di cooperazione e di scambio di informazioni tra la Serbia e il Kosovo rimane il principale ostacolo nel chiarire i casi irrisolti. I rapporti indicano che le autorità kosovare non hanno condiviso informazioni e documenti sulle persone scomparse a loro disposizione. […] Le vittime rom, ashkali ed egyptians hanno riferito di non essere sufficientemente rappresentate nelle attività ufficiali di ricerca delle persone scomparse». In particolare, «la Commissione europea ha espresso preoccupazione per la riluttanza delle autorità del Kosovo a indagare, perseguire e sanzionare i casi di crimini di guerra che coinvolgono ex membri dell’UÇK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo [la milizia separatista albanese kosovara]».

Due questioni importanti circa la memoria del conflitto sono approfondite nei §§ 75 e 76. «La memorializzazione del conflitto in Kosovo è in gran parte monoetnica e permeata da discorsi nazionalisti e/o etnocentrici sul conflitto e sulle sue vittime […]. I memoriali istituiti dalle autorità centrali del Kosovo e dei comuni a maggioranza albanese sono principalmente dedicati alla commemorazione delle vittime civili albanesi e dei soldati caduti dell’UÇK. Nelle aree a maggioranza serba, la maggior parte dei memoriali commemora le vittime serbe del Kosovo o ricorda le campagne di guerra contro la Serbia. La società civile ha denunciato … l’etnocentrismo e la politicizzazione della memoria nelle pratiche commemorative dei funzionari albanesi e serbi del Kosovo». Numerosi «memoriali sono stati costruiti da associazioni di famiglie e di veterani. Tuttavia … i memoriali commemorano gli eroi caduti e le vittime civili di un solo gruppo etnico. […] Alcuni memoriali sono stati vandalizzati».

Consentire alle società colpite e alle popolazioni vittime di esprimere e spiegare gli eventi violenti e tragici del passato, senza mistificarlo o negarlo, può favorire un processo di reciproca umanizzazione e riconoscimento, di dialogo e di rispetto; può contribuire, insieme con altre misure, alla riduzione delle tensioni e delle polarizzazioni, e può concorrere a riaprire spazi per la convivenza e il superamento delle divisioni del passato.