Carlos Fino (*) intervistato per PRESSENZA da Vasco Esteves

Carlos Fino nasce in Portogallo ed è stato inviato radiotelevisivo, corrispondente di guerra, conduttore e addetto-stampa per quarant’anni. Ha viaggiato in Europa Orientale, in Medio Oriente e in Brasile. Ha lavorato a Lisbona, Mosca, Bruxelles, Washington e Brasilia. È probabilmente il giornalista portoghese più famoso del mondo. È stato un giornalista pluripremiato, ha scritto libri e ha conseguito un dottorato in Scienze della Comunicazione. Nel 2022 è tornato in Portogallo per – come lui stesso afferma – “non essere più sotto i riflettori della politica internazionale e del giornalismo e condurre una vita più tranquilla” insieme alla moglie, cercando di vivere la sua “aurea mediocritas” alla vecchia maniera.

Tuttavia nel 2022, appena giunto in Portogallo, ecco che scoppia la guerra in Ucraina e lui ne rimane profondamente scioccato. Si è astenuto dall’intervenire, ma ora ha deciso di fare un’eccezione, rilasciando questa intervista esclusiva a Pressenza sulla sua esperienza in Europa Orientale e sulle possibili conclusioni geopolitiche che ne potranno conseguire.

La prima parte dell’intervista, pubblicata pochi giorni fa, riguardava le esperienze di Carlos Fino a Mosca durante il crollo dell’Unione Sovietica e la forzata disgregazione della Jugoslavia.
In questa seconda parte, parlerà dell’attuale guerra in Ucraina, dell’Europa Orientale in generale, nonché della deglobalizzazione in corso e del nuovo emergente ordine mondiale.

L’attuale guerra in Ucraina

Pressenza: Parliamo ora della guerra in corso in Ucraina. Carlos, tu dov’eri e quale è stata la tua prima reazione quando hai saputo che le truppe russe avevano invaso l’Ucraina quasi due anni fa, febbraio 2022?

Carlos Fino: Stavo rientrando in Portogallo dal Brasile. Avevo scelto di non far più parte della “prima pagina” della politica internazionale e di condurre una vita più tranquilla. In quest’ottica, questa intervista rappresenta un’eccezione. Ho “trascorso” e dedicato tutta la mia vita alla politica internazionale e al giornalismo e volevo allontanarmi per un po’ e fare ciò che gli antichi chiamavano “aurea mediocritas”: ovvero, stare qui e godere delle cose belle della vita, lontano dalla ribalta. Ma sono rimasto scioccato dal precipitare degli eventi.

Anche se, a dire il vero, lo scoppio delle ostilità era sempre più prevedibile dal momento che l’Ucraina, in termini geopolitici, si trova proprio al confine di due grandi placche tettoniche: l’Occidente e la Russia. Si trova quindi in una situazione molto delicata, che richiederebbe politici dotati di notevole competenza e della capacità di impedire di arrivare fino alle estreme conseguenze.

Tuttavia, considerato ciò che stava succedendo dal 2014, con la rimozione forzata del presidente ucraino eletto con una votazione convalidata dall’OSCE e poi con la creazione di un regime apertamente anti-russo a Kiev che ha compiuto attacchi militari sul Donbass (che non ha mai voluto sottomettersi a questo cambiamento del 2014), situazione che durava da otto anni con migliaia di vittime, era quindi sempre più prevedibile, e addirittura inevitabile, che a un certo punto la Russia intervenisse, come poi ha fatto.

P.: L’Occidente avrebbe potuto evitare la guerra in Ucraina?

C.F.: Certo, avrebbe potuto, in modo molto semplice: bastava evitare l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, o rinviare la questione e garantire al Paese lo status neutrale. Non c’è niente di stravagante in questo: l’Austria è rimasta neutrale dalla fine della seconda guerra mondiale, traendone solo vantaggio. D’altronde, da un punto di vista interno, Kiev potrebbe benissimo riconoscere l’autonomia del Donbass, così come il Portogallo riconosce l’autonomia delle Azzorre o la Spagna riconosce l’autonomia della Catalogna. E questo avrebbe evitato la guerra.

P.: Dunque non pensi che in Ucraina l’Occidente difenda la democrazia contro le dittature – o almeno contro una dittatura – ma piuttosto difenda i propri interessi economici, strategici, geopolitici…

C.F.: … sì, geopolitici, almeno secondo l’accezione dell’attuale leadership occidentale. Ma possiamo immaginare un’altra direzione, ovvero riconoscere la legittimità dei problemi di sicurezza russi. Non capisco perché non si potesse fare. E’ ovvio che la Russia abbia problemi di sicurezza che possono essere affrontati e che in un certo senso sono legittimi o potevano essere almeno oggetto di negoziati. Ma adesso, a quanto pare, la corrente neoconservatrice che domina a Washington ha concluso che no, questa guerra è il modo per indebolire ulteriormente la Russia; ecco perché la guerra è diventata praticamente inevitabile.

Difendere la democrazia, ma quale democrazia? L’attuale regime di Kiev ha bandito almeno 11 partiti ucraini, pretendeva di imporre l’uso della lingua ucraina anche nelle regioni russofone, ha messo fuori legge canali televisivi: gli standard democratici del regime ucraino sono ben lontani dalla normale democrazia europea.

P.: Quindi questa guerra è, sul lato ucraino, una “guerra per procura” degli USA contro la Russia, e l’Ucraina viene in qualche modo sacrificata per obiettivi non suoi?

C.F.: … così sembra. In fin dei conti, questa è una guerra tra cugini per l’eredità sovietica. Un conflitto che avrebbe potuto restare entro confini regionali, senza trasformarsi in un conflitto di principio di importanza globale, tale da condurci molto vicini alla Terza guerra mondiale e a una catastrofe nucleare. Non avrebbe dovuto per forza essere così. Ci sono altre cose dietro. Sostenere che questa è una guerra della democrazia contro la dittatura è una forzatura a fini propagandistici. Francamente, da tutto quel che leggo, mi sembra che il regime ucraino non sia né più democratico né meno corrotto di quello russo.

P.: Si tratta quindi di una guerra provocata in una certa misura dall’Occidente e dalla NATO?

C.F.: Sì, diciamo che è stata provocata soprattutto dal cambio di regime a Kiev nel 2014. Si tratta fondamentalmente di una guerra civile, o almeno così era finché non si è trasformata in un conflitto con la Russia, e potenzialmente in un conflitto globale. Ma all’inizio era una guerra interna al paese: c’era una parte del paese che non voleva sottomettersi all’altra. Quindi, come ho detto, si è trattato di una lotta tra cugini per l’eredità sovietica, con l’aggravante che, da parte russa, la questione ha radici storiche: perché il Donbass è russo fin dal XVIII secolo, perché praticamente tutte le principali città del Donbass sono state fondate dai russi almeno dal XVII secolo e quindi parlano russo, la maggioranza della popolazione è russofona.

Immaginate che il Portogallo, alla fine della sua fase imperiale, abbia perso l’Algarve, e che questa viene annessa alla Spagna: la Spagna, invece di accettare la logica autonomia dell’Algarve, comincia a imporre la lingua spagnola, bandendo i canali in lingua portoghese e inviando l’esercito per attaccarne la popolazione. Come reagirebbero gli abitanti dell’Algarve, e come reagirebbe Lisbona in una situazione del genere?

P.: Un altro territorio che ha sempre desiderato una certa autonomia, ma che non è mai stato rispettato dall’Ucraina, è la Crimea. Pochi giorni fa ho letto che, con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, la Crimea è diventata indipendente prima ancora dell’Ucraina stessa. È stata l’Ucraina, dopo essere diventata indipendente pochi mesi dopo, a cercare di portare la Crimea all’ovile. È entrata, poi è uscita, poi è rientrata e poi è uscita di nuovo perché, ogni volta che si trovava all’interno dell’Ucraina, non è mai riuscita a far rispettare la propria autonomia come promesso…

C.F.: C’è anche un contesto storico, una disputa secolare con la Russia e l’influenza russa sul Mar Nero. Basti ricordare che nel XIX secolo ci furono due guerre in Crimea, con l’intervento di Francia, Inghilterra e Turchia contro la Russia per l’influenza in quella zona. Anche il Mar d’Azov fu conquistato dai russi al tempo di Pietro il Grande. L’influenza russa nell’area andava e veniva, più e più volte, ma rimaneva prevalentemente russa.

Anche questo è un fattore da considerare nell’analisi del problema: esiste una disputa storica tra le grandi potenze riguardo alla loro presenza e il controllo del Mar Nero, che per i russi rappresenta l’unico accesso al Mediterraneo. I russi sono sempre stati predominanti in quella zona. Ciò che si nasconde dietro l’attuale guerra in Ucraina ha anche a che vedere con gli interessi strategici di alcuni paesi occidentali e degli USA nel controllo militare del Mar Nero: se l’Ucraina dovesse aderire alla NATO, i russi non avrebbero più libero accesso al Mar Nero, per esempio.

Nel frattempo, secondo me, tutti questi problemi si sarebbero potuti risolvere in modo molto semplice: riconoscendo la neutralità dell’Ucraina. Personalmente sono molto dispiaciuto, ho diversi amici ucraini, il Paese è una regione molto bella, soprattutto nel sud e nell’ovest, ma lì c’è una frammentazione storica: l’Occidente ha influenza soprattutto nella parte occidentale, tradizionalmente più strettamente legata a Polonia e Germania, mentre nel sud del Paese (almeno dal XVII-XVIII secolo) dominano la lingua e le tradizioni russe. Nel caso di un paese così frammentato dal punto di vista culturale e anche linguistico, l’unica soluzione possibile era rimanere neutrale.

A tal proposito, penso che gli ucraini abbiano perso un’occasione storica. Considera che l’Ucraina non ha mai avuto un territorio così vasto come quello di oggi, perché il suo territorio è sempre stato conteso dagli imperi circostanti, dalla confederazione polacco-lituana, dall’impero russo, dall’impero turco. Parte dell’attuale territorio dell’Ucraina era stato russo, ceduto da Lenin; in seguito, alla fine della seconda guerra mondiale, Stalin fece sì che anche la parte occidentale (la zona di Lviv, in passato appartenuta alla Polonia) fosse annessa all’Ucraina; poi, già nel XX secolo, Kruscev cedette l’amministrazione della Crimea a Kiev. Quindi, a causa di una serie di circostanze storiche diverse, l’Ucraina è arrivata alla fine del XX secolo, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, con un territorio vastissimo, diventando addirittura il paese più grande d’Europa. Se Kiev avesse perseguito una politica più democratica e neutrale, avrebbe avuto la storica opportunità di consolidarsi come uno dei principali stati europei, un’opportunità che ora è svanita! A meno che la Russia non crolli militarmente, l’Ucraina ha già perso il Donbass e la Crimea. E se perde la guerra rischia di perdere anche la parte occidentale del Paese, perché i polacchi ritengono che appartenga storicamente alla Polonia. Penso quindi che optare per il conflitto piuttosto che per la conciliazione sia stato un errore storico da parte del nuovo regime ucraino emerso dalla cosiddetta “Rivoluzione di Maidan”.

P.: Ancora due brevi domande sull’Ucraina. La prima: chi pensi che abbia distrutto le condutture del gasdotto Nord Stream e con quale intenzione?

C.F.: Ti consiglio di parlare con Seymour Hersh…

P.:giornalista investigativo americano che ha accusato la CIA…

C.F.: Non penso sia necessaria consultare l’oracolo o perdersi in congetture: era stata una promessa del presidente americano Biden durante una conferenza stampa, quando disse che gli Stati Uniti avrebbero trovato il modo di distruggerle, se i russi fossero intervenuti…

P.: Nel qual caso si tratta di un atto di guerra militare contro Germania e Russia!

C.F.: La Germania non sembra aver fatto granché per individuare il colpevole.

P.: I tedeschi hanno già svolto delle indagini, con esiti che però mantengono completamente segreti…

C.F.: Sì, ma “chi tace acconsente”, giusto?

P.: E l’altra breve domanda è: come pensi che finirà questa guerra? Che ruolo potrebbero avere l’Ucraina e la Russia dopo che sarà finita?

C.F.: Le previsioni sono quasi sempre errate. “Aspettatevi l’inaspettato”, come disse una volta qualcuno, oppure “la cosa più probabile è ciò che nessuno aveva previsto”! In ogni modo, molte cose possono succedere. Per il momento i russi si limitano a contenere gli attacchi ucraini e a decimare quanti più soldati e materiali bellici occidentali in Ucraina. Fino a che punto i russi manterranno questa tattica o aspetteranno il momento più opportuno per lanciare una controffensiva, e fino a che punto? Penso che i russi non siano interessati a occupare l’intera Ucraina, ma manterranno il controllo sul Donbass e la Crimea. Sarà molto difficile farli uscire da quelle due regioni. Cosa resterà dello Stato ucraino dopo la guerra? Fino a che punto questo regime sarà in grado di gestire l’enorme numero di perdite umane e infrastrutture distrutte? Per quanto tempo la popolazione sopporterà tutto questo senza una svolta politica a Kiev? Fino a che punto continuerà il sostegno occidentale? Cosa accadrà dopo le elezioni americane del 2024? Tante domande, tanti dubbi, poche risposte, nessuna certezza. In ogni caso, non credo che sia possibile tornare allo status quo prebellico.

P.: Pensi che, se Trump vincerà le prossime elezioni in Nord America, la guerra in Ucraina potrà finire più in fretta?

C.F.: Per prima cosa dobbiamo sapere se potrà concorrere di nuovo. E in caso che sì, se vincerà. Non si sa. Lo stesso Trump è un’incognita. Anche se è vero che non ha iniziato nessuna guerra ai suoi tempi…

P.: …non ha iniziato nessuna nuova guerra, ma ne ha portate avanti altre, come l’intervento militare in Siria. E ha iniziato una guerra commerciale contro la Cina. Insomma, si è impegnato in altre guerre…

C.F.: Ciò dipende dagli interessi strategici degli Stati Uniti, che ora potrebbero essere più interessati a ricorrere al conflitto con la Cina. Lo stallo ucraino sta diventando sempre più costoso…

Copertina di un libro di Carlos Fino

Europa Orientale

P.: Vorrei farti alcune domande sull’Europa Orientale in generale. Quali altri paesi dell’Europa Orientale hai coperto con i tuoi report?

C.F.: Sono stato praticamente in tutti i paesi dell’ex “cortina di ferro” in momenti critici e/o di transizione: Romania, Cecoslovacchia, Polonia, DDR, Ungheria, Jugoslavia, Bulgaria, Moldavia, Lituania, Estonia, Lettonia, ma anche Albania, Georgia, Ucraina, Armenia, Azerbaigian, Nagorno Karabakh, Cecenia e perfino Afghanistan (dopo gli attentati alle Torri Gemelle). E sono stato più volte nell’ex Jugoslavia, ma non durante la guerra; allora ero già corrispondente della RTP (Rádio Televisão Portuguesa) a Washington (1998-2000).

P.: Quali sono stati i momenti o le esperienze più emozionanti che hai vissuto in quel periodo?

C.F.: Quelli che più hanno avuto un impatto per me personalmente e in termini positivi sono stati sicuramente Solidarność in Polonia e la Rivoluzione di Velluto in Cecoslovacchia. Mi rammarico moltissimo di non essere stato presente alla caduta del muro di Berlino: in quel momento ero in viaggio a Mosca e la RTP decise di inviare un altro giornalista a Berlino. Mi sarebbe piaciuto poter condividere quei momenti di gioia e liberazione. Ma Solidarność in Polonia, con la grande influenza della Chiesa cattolica e del Papa polacco di allora [Papa Giovanni Paolo II], Wojtyla, e anche i cambiamenti che ebbero luogo in Cecoslovacchia, sono stati i momenti che mi sono rimasti più impressi nella memoria.

P.: Il caso della Cecoslovacchia, tra parentesi, è un perfetto esempio di come un paese possa dividersi definitivamente in due, senza guerre né conflitti: in Cechia e in Slovacchia.

C.F.: Beh, ciò avrebbe potuto accadere anche in Ucraina. Ma non ci si doveva nemmeno arrivare, perché originariamente il Donbass faceva parte dell’Ucraina e non c’era bisogno di separarsene. Ma forse il caso più inquietante è stato quello della Romania e i dubbi su come sia stata orchestrata l’intera faccenda. Sto parlando della caduta di Ceaușescu, della sua uccisione insieme alla moglie. Mi trovavo in Romania all’epoca.

P.: Quando cadde il muro di Berlino eravamo tutti molto felici. Ma in Germania ci rendemmo conto che era solo il primo dei grandi cambiamenti che sarebbero avvenuti in tutta l’Europa Occidentale, che non si trattava solo di un fenomeno locale…

C.F.: Gorbaciov ha surclassato Honecker [presidente della DDR, o Germania Est fino al 1989]! E, per una manciata di marchi, negoziò con Kohl [Cancelliere della Repubblica Federale negli anni ‘80 e ‘90] affinché le truppe sovietiche lasciassero la Germania Est, consentendo così la riunificazione tedesca, e questo contro la promessa – mai mantenuta dall’Occidente! – che non ci sarebbe stata alcuna espansione della NATO nell’Europa Orientale.

P.: Gorbaciov fece poi un’unica eccezione: autorizzò l’espansione della NATO solo nel territorio della Germania riunificata, a condizione che nella parte orientale di essa non fossero posizionate armi atomiche…

Ma parliamo ora delle implicazioni geostrategiche – demografiche, economiche – di questa apertura verso est, cioè della fine della cosiddetta “Cortina di Ferro”. Ci siamo subito resi conto che, con il crollo dell’Unione Sovietica, ci sarebbe stata un’enorme migrazione della forza lavoro da est a ovest, di persone che volevano più soldi o migliori condizioni di vita e di lavoro; e, allo stesso tempo, una massiccia migrazione di risorse finanziarie ed economiche dal capitalismo dell’Europa Occidentale all’Europa Orientale. L’Europa Orientale aveva manodopera a basso costo, le imprese occidentali acquistavano fabbriche e infrastrutture dei paesi dell’Est, vi investivano, ma volevano anche il controllo totale su di esse.

Nella Germania Est, assimilata e al 100% integrata nella Germania Ovest, questo processo di assimilazione fu più rapido e semplice, ma anche più doloroso per le persone colpite; negli altri paesi dell’Est europeo, che avevano mantenuto la propria indipendenza, l’integrazione capitalista fu più lenta ma anche meno dolorosa, poiché questi paesi mantennero sempre un certo potere decisionale e quindi un certo controllo su ciò che accadeva.

La mia domanda è: le persone incontrate da Carlos nell’Europa Orientale si rendevano conto di essere esposte a questi due grandi “terremoti”, migratorio ed economico, o erano più preoccupate della loro vita quotidiana, della propria sopravvivenza, o addirittura di godersi le nuove libertà che avevano conquistato?

C.F.: L’aspetto della libertà è molto importante. Non penso che la gente avesse idea dei movimenti tellurici che sarebbero seguiti. Naturalmente erano più preoccupati della loro vita quotidiana e delle cose immediate. Solo i politici potevano avere una visione dei processi e delle loro possibili conseguenze. Ma a livello del cittadino comune si attribuiva maggiore importanza alla libertà di espressione, alla finalmente riconquistata indipendenza politica, alle preoccupazioni per il benessere, per ciò che si poteva e non si poteva comprare.

C’è sempre stato un grande fascino per il consumo, basti pensare alla vecchia immagine degli abitanti dell’Est con la faccia schiacciata contro la vetrina in Occidente… Questo fascino esiste ancora oggi, ed è questo che muove certi cicli politici, come in Moldavia, Georgia, ecc. Questa idea, a volte esagerata, del benessere occidentale e della seduzione che esercita. Questo benessere non è così abbagliante come si pensa in alcuni casi, è quasi sempre più difficile da raggiungere di quanto sembri a prima vista.

Deglobalizzazione in corso, un nuovo ordine mondiale

P.: Questo è ciò che sta accadendo ora nella Germania Est. A più di 30 anni dalla riunificazione, molte persone sono deluse dalle loro esperienze, perché le promesse dell’Occidente spesso non sono state mantenute.

Ma guardiamo cosa è avvenuto 20 anni dopo: quell’apertura verso l’Oriente si è poi estesa ad altri paesi, questa volta in Asia, per esempio la Cina o l’India. Ci troviamo ora in una fase successiva, in cui la manodopera a basso costo viene ricercata in Cina o in India e gli investimenti si stanno spostando maggiormente verso l’Asia. Pertanto, c’è stata una chiara espansione della globalizzazione. Ma – e questa è una cosa che mi incuriosisce davvero! – con lo scoppio della guerra in Ucraina tutto sembra essere tornato un po’ indietro: l’espansione della globalizzazione sta volgendo al termine, o almeno si sta riducendo, si registra una contrazione del commercio globale, la deglobalizzazione e perfino una certa necessità alla reindustrializzazione da parte dei paesi ricchi (nel caso degli USA, per esempio). Allo stesso tempo si stanno creando nuovi blocchi e una nuova guerra fredda. In tutto il mondo assistiamo a un’impennata del nazionalismo, per esempio attraverso il boicottaggio di altri paesi, il protezionismo o l’indebolimento delle organizzazioni internazionali: la Russia è stata espulsa dal G8, le Nazioni Unite stanno perdendo la loro importanza, l’Unione Europea è divisa e in parte paralizzata… Cos’è successo con la guerra in Ucraina, cosa c’è dietro a tutto ciò, che spiega questa importante svolta?

Ci troviamo, come sostengono molti media occidentali, in un conflitto tra democrazie e dittature o è tutta colpa di Trump che, quando era presidente, ha avviato guerre commerciali e finanziarie contro Cina ed Europa? Cosa ne pensi?

C.F.: Beh, questo è un interrogativo di portata globale, non mi sono mai particolarmente distinto come analista di politica internazionale, sono – anzi, ero – più che altro un reporter e giornalista. Con una domanda così ampia mi attribuisci meriti che non ho. Posso solo ripetere alcune banalità, per esempio sulla preoccupazione degli Stati Uniti in particolare – e dell’Occidente in generale – che il potere della Cina possa rappresentare una riduzione, una contrazione del potere e degli interessi occidentali, e in ultima analisi la preoccupazione per come si distribuirà il mondo, cioè come verrà ripartito d’ora in poi – e chi controllerà cosa. Questo è ciò che guida la politica.

Hai citato il tramonto della globalizzazione e la ricomparsa di sentimenti nazionalisti. Penso che sia logico, poiché è diventato chiaro che la globalizzazione risponde maggiormente agli interessi del capitale finanziario internazionale, senza tenere conto delle tradizioni e degli interessi nazionali. È quindi naturale che questo movimento globalista iniziato negli anni ‘90 venga frenato. E ciò che probabilmente vedremo è la formazione di gruppi che metteranno in discussione l’ordine internazionale risultante dalla Seconda guerra mondiale, comprese le sue principali istituzioni, dall’ONU, all’Organizzazione Mondiale della Sanità, alla Corte Penale Internazionale, ecc. Tutte istituzioni caratterizzate da un taglio molto filo-occidentale. E con il riemergere degli interessi nazionali di altre grandi potenze come Cina, India, Indonesia, Brasile, Venezuela… è naturale che ci sia una revisione dell’intero ordine mondiale in vigore fino ad oggi: i temi del commercio e delle leggi che regolano il commercio internazionale, la tanto attesa revisione da parte dello stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dalla seconda guerra mondiale ne è passata di acqua sotto i ponti. E con l’esperienza, per molti versi negativa, della globalizzazione degli anni ‘90, così come la comparsa di nuove potenze, è naturale che questo ordine internazionale tenda ad essere messo in discussione. Vediamo come si mettono le cose… ma quello che è certo è che le cose si stanno muovendo!

P.: Cosa pensi dei BRICS? Saranno in grado di dare un valido contributo a un nuovo e più giusto ordine mondiale?

C.F.: Questa è ancora una questione aperta, siamo ancora agli inizi. Una cosa su cui non ci siamo ancora soffermati è il ruolo del dollaro. Se grandi paesi come Cina, India, Brasile e Indonesia, demograficamente e territorialmente molto importanti, e anche altri come Venezuela o Arabia Saudita, con grandi riserve di petrolio, mettono in discussione il ruolo del dollaro nel commercio, è naturale che questo ordine mondiale sarà messo in discussione e potrebbero emergere nuove regole. Il gruppo dei BRICS è ancora più una promessa che una realtà, ma tende a espandersi e, in ultima analisi, consolidarsi. Non so come interagiranno i BRICS con il G20, che è già diventato G21: come sarà la loro interconnessione in futuro, cosa rimarrà per alcuni e cosa per altri? Insomma, penso che abbiamo già intrapreso una serie di cambiamenti già in atto, ma di cui non si conosce ancora l’esito finale.

Ma sembra che stiamo assistendo, in ogni caso, ad un arretramento dell’impero americano e della sua capacità di intervento. Ciò che è accaduto (e sta accadendo) in Siria è rivelatore: non è stato possibile per l’Occidente, e in parte per gli Stati Uniti, realizzare il cambiamento che volevano apportare in Siria. Quel cambiamento è stato interrotto. E questo è un segno. Anche il declino del dollaro come valuta nel commercio internazionale è un altro indicatore delle tendenze già in atto. Non sappiamo ancora quanto velocemente e quanto profondamente vedremo questi cambiamenti, ma il movimento è già iniziato.

P.: E non abbiamo nemmeno citato i problemi ambientali. Siamo sull’orlo di un abisso, un “punto di non ritorno” riguardo al riscaldamento globale, ma il mondo sembra preoccuparsi solo di guerre al suo interno, conquistare aree di influenza, formare blocchi, ma non blocchi per proteggere la natura e le persone, ma solo gli interessi di pochi paesi o gruppi economici.

C.F.: Sì, ma d’altro canto c’è anche una certa incertezza scientifica, che in qualche modo limita le possibilità di cambiamento in questo ambito. A volte la scienza è vista come nient’altro che un’ideologia. Nonostante i progressi, al contempo si tengono una serie di incontri che non portano a nulla e servono solo a far incontrare qualche centinaio di “habitué” un po’ ovunque nel mondo, senza alcun progresso significativo.

Dopo aver vissuto come giornalista la fine dell’Unione Sovietica, stiamo ora sperimentando la mancata realizzazione delle enormi speranze allora suscitate.

Fu proprio allora che si diffuse l’idea che la “Guerra Fredda” sarebbe finita, che sarebbe finito il confronto globale tra i blocchi, che sarebbe stata possibile una nuova era in cui i popoli si sarebbero capiti meglio per risolvere i problemi che sono stati di reale preoccupazione per l’umanità per così tanto tempo, come la fame, il cambiamento climatico, e tutto con meno conflitti, meno guerre e meno sprechi. Stiamo vivendo un grande disincanto. Potremo mai superarlo? Siamo sempre tra qui e là. In generale, prima di una tragedia, le persone non si riuniscono per compiere grandi sforzi positivi: prima la tragedia, poi la lotta contro le conseguenze. E poi ancora tragedia: sembra esserci un destino tragico nella nostra condizione umana!

P.: Conosci le posizioni di Robert Francis Kennedy Jr., candidato alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2024? Dichiara che, se eletto, metterà fine alle guerre statunitensi e dissolverà l’impero militare statunitense dall’interno, investendo solo nello sviluppo del Paese, nella pace e nell’uguaglianza tra i popoli.

C.F.: Sì, con questo programma si candida ad avere il destino di suo zio [John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti] e di suo padre [Robert Francis Kennedy], entrambi assassinati negli anni ‘60.

Il pericolo rappresentato dalle forze interne, in particolare dal complesso militare-industriale statunitense, da cui Eisenhower aveva messo in guardia il mondo alla fine del suo mandato, è reale: queste forze sono molto potenti e dominanti. Il cosiddetto “deep state” (“stato profondo”) che controlla gli Stati Uniti d’America è molto potente e infatti, date le attuali circostanze internazionali, non vedo nell’immediato alcuna possibilità di evoluzione più pacifica e più in linea con i reali interessi dell’umanità. Perché questo accada, sarebbe necessario un profondo cambiamento all’interno degli stessi Stati Uniti. Quando questo accadrà, se mai dovesse accadere, non si sa.

P.: Il declino dell’imperialismo statunitense a cui stiamo assistendo spiega molti dei mali e delle contraddizioni di oggi…

C.F.: Quello che possiamo dire al riguardo – come ha affermato Mark Twain a proposito delle voci sulla sua morte – è che la notizia della morte dell’impero americano “è probabilmente esagerata”!

L’impero americano, la sua forza e capacità di intervento, la sua presenza fisica attraverso centinaia di basi militari in tutto il mondo, uomini, influenza, ricchezza, mezzi di intervento e – non ultimo – in termini di reti satellitari e mezzi di influenza mediatica, è ancora enorme.

P.: Carlos, la tua conclusione è piuttosto pessimistica, ma la speranza non è ancora morta. E continueremo a lottare per un mondo migliore e più umano.

C.F.: La speranza, si sa, è l’ultima a morire. Il problema è che la nostra lotta per un mondo migliore, come è successo con il comunismo, è – purtroppo, anche! – contaminata da crimini enormi. Anche i comunisti avevano fatto queste promesse: pace, sviluppo, fratellanza. E non siamo andati oltre i generici slogan della Rivoluzione francese: “Liberté, Égalité, Fraternité”: la libertà l’abbiamo, almeno in parte, anche se oggi è molto sotto scacco.

Non abbiamo parlato nemmeno dei media, dello straordinario potere che hanno e che nessuno controlla. Ogni tentativo di rivedere questo potere, a partire dal famoso Rapporto McBride dell’UNESCO degli anni ‘80, sponsorizzato dalle Nazioni Unite, non ha ancora portato alcun cambiamento in questo ambito, e il potere dei media è diventato sempre più forte. Dopo quel rapporto, gli Stati Uniti si ritirarono dall’UNESCO, lo boicottarono completamente, e tutto “è rimasto in ammollo” fino ad oggi! Quel rapporto aveva già denunciato lo straordinario potere di una manciata di agenzie di stampa che controlla tutta l’informazione. E chi controlla l’informazione controlla il mondo. E queste agenzie sono sempre le stesse, alcune risalenti al XVIII o XIX secolo: Reuters, France Press, ecc. E i giornali, le grandi reti radiofoniche e televisive, alcune delle quali globali, controllate da una manciata di grandi magnati. Sono loro che “fanno il bello e il cattivo tempo”, come dicono i francesi. Sono loro che definiscono sempre il messaggio di ciò di cui si parla, di ciò di cui vale la pena parlare. Il giornalismo oggi non fa questo lavoro, anche se avrebbe i mezzi per farlo: chi in redazione va contro l’agenda già fissata dalle grandi agenzie? Chi si sforza di cercare altri argomenti? Tutto questo sarebbe tecnicamente possibile, ma sono pochi quelli che si impegnano, o si tratta di sforzi molto occasionali, non esiste un lavoro sistematico. Già negli anni ‘80 il rapporto McBride metteva in discussione queste agenzie, che sono le stesse di sempre.

E anche la sinistra è segnata da una certa dose di criminalità, questo è il problema: i Gulag, l’assassinio di Trotsky, ecc.

P.: Questo è ciò che sta accadendo in Germania: si è passati direttamente dal nazismo di Hitler a un comunismo di stampo sovietico (nel caso della Germania Est, l’ex Repubblica Democratica Tedesca), e quindi a una nuova dittatura. Ecco perché sono entrambi “finiti”, sia a destra che a sinistra, e non sanno dove andare.

C.F.: E dov’è oggi il Movimento per la Pace che ha posto fine alla guerra del Vietnam? Dov’è oggi per porre fine alla guerra in Ucraina? Nessuno alza la bandiera della pace!

P.: In Germania, il Movimento per la Pace negli anni ‘60 e ‘80 era principalmente associato alla rivolta giovanile e a coloro che oggi fanno parte del Partito dei Verdi, anch’esso contrario all’energia atomica e alle armi nucleari…

C.F.: … e che ora è guidato da quella ragazza, il ministro degli Esteri tedesco [Annalena Baerbock], che è decisamente troppo bellicosa…

Sì, ora i leader del Partito dei Verdi in Germania sono per lo più favorevoli a fornire all’Ucraina armi sempre più letali per combattere la Russia. Non hanno più una posizione pacifista, nemmeno per chiedere negoziati! O almeno rimanere neutrali e fare pressione sui gruppi in conflitto affinché “fermino tutto ciò!”

P.: Grazie mille, Carlos, per questa intervista!

C.F.: Grazie a voi per il pensiero e l’interesse.


(*) Carlos Fino:

1948: Nasce a Lisbona, ma vive e cresce nell’Alto-Alentejo (Portogallo).

1967: Studia giurisprudenza a Lisbona, è rappresentante degli studenti e membro clandestino del PCP, e come tale viene perseguitato dalla PIDE, la polizia politica del fascismo.

1971: Varca “a salto” (illegalmente) il confine con Parigi, poi giunge a Bruxelles, dove ottiene lo status di rifugiato dalle Nazioni Unite.

1973: Si trasferisce in Unione Sovietica, dove lavora come annunciatore per Radio Mosca in Portogallo e nell’Africa lusofona.

1974: Alla fine dell’anno, in seguito alla Rivoluzione dei Garofani, torna in Portogallo e lavora per diversi giornali e per l’ex Emissora Nacional (EN).

1975: Alla fine dell’anno torna a Mosca, questa volta come corrispondente internazionale per EN e, successivamente, per Rádio Televisão Portuguesa (RTP).

1982-1989: Lavora per la RTP a Lisbona come reporter, conduttore e commentatore.

1989-1995: Di nuovo a Mosca, segue come giornalista il crollo dell’Unione Sovietica e la democratizzazione dell’Europa Orientale: Russia, Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia, DDR, Polonia e Ungheria, nonché i conflitti in Abcasia, Georgia, Nagorno Karabakh, Moldavia, Cecenia e Afghanistan.

1995-1998: Corrispondente della RTP a Bruxelles.

1998-2000: Corrispondente della RTP a Washington.

2000-2004: Copre varie guerre e conflitti: Albania, Palestina, Afghanistan, ma anche l’invasione dell’Iraq nel 2003 da parte delle truppe americane, ed è il primo reporter al mondo a trasmettere in diretta le immagini dell’inizio del bombardamento americano su Baghdad.

2003: Pubblica il libro “A Guerra em Directo”, edito da Verbo.

2004-2012: Lavora in diplomazia come Addetto Stamoa presso l’ambasciata portoghese in Brasile nei primi due mandati del presidente Lula da Silva.

2013: Si ritira e rimane in Brasile.

2019: Consegue un Dottorato di ricerca in “Scienze della comunicazione” presso l’Università del Minho a Braga con una tesi che servì come base per il suo più recente libro “Portugal-Brazil: Roots of Strangeness” pubblicato nel 2021.

2022: Ritorna in Portogallo e nel “suo” Alto Alentejo.

Nel corso della sua carriera di giornalista, Carlos Fino ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali. Ha circa 37.000 follower su Facebook, un trend in crescita.

Maggiori informazioni sull’intervistato qui: https://pt.wikipedia.org/wiki/Carlos_Fino

Vedi qui la prima parte dell’intervista di Pressenza a Carlos Fino sulla sua esperienza a Mosca e durante il crollo dell’Unione Sovietica e la disgregazione forzata della Jugoslavia.

PRESSENZA ha pubblicato anche una videointervista in portoghese a Carlos Fino di UTAD TV, che potete guardare qui.


Traduzione dall’inglese di Enrica Marchi. Revisione di Daniela Bezzi