“La terra è dignità e noi lottiamo per la nostra dignità” così Ghassan, 33 anni, laureato in Filologia inglese, contadino per scelta a Burin, 12 chilometri a sud di Nablus, la più grande area agricola della regione e uno degli hot-spot della Cisgiordania. Il villaggio di Burin, infatti, è circondato da 3 colonie israeliane, tra le più aggressive dei territori occupati: Yitzhar, Bracha, Givat Ronen. Un totale di 1200 coloni, sionisti prevalentemente di origine statunitense, che sconvolgono la vita di 3500 locali, rivendicando la proprietà sulla terra in barba al diritto internazionale che ha più volte sancito l’illegalità degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a dispetto della Convenzione di Ginevra del 1949, firmata da Israele, che proibisce a uno stato occupante di trasferire civili nei territori occupati.

Eppure dal 2002, la media degli attacchi inferti dai coloni alla terra e alle case palestinesi in quest’area, è di 3-4 volte a settimana. In piena notte o di giorno, arrivano a gruppi di 30-40 persone, tirano pietre, spesso molotov, bruciano le auto, danno fuoco alla terra e agli ulivi, la coltivazione principale di quest’area e della Palestina. Tagliano gli alberi, avvelenano la terra e le poche risorse d’acqua lasciate ai palestinesi.

Oggi gli attacchi sono forti di un’aggravante: Israele sta accogliendo migliaia di rifugiati ucraini di religione ebraica. Una politica controversa annunciata già nel 2022 dall’Organizzazione mondiale sionista, Yishai Merling, che presentava almeno 1000 colonie nei Territori Occupati pronte a ricevere ebrei ucraini e a integrarli nella vita dei settlers. A Burin ne sono arrivati 500, portando il numero dei coloni da 1200 a 1700. Ghassan ci racconta che ricevono veri e propri training per consentire loro di essere parte attiva nelle politiche di aggressione dei coloni.

Quando incontriamo Ghassan, nella sola settimana precedente l’intervista, la prima di agosto, 83 ulivi sono stati arsi. Dal 2004 il numero di ulivi distrutti ammonta a 16.000, come riporta il registro distrettuale. In questo contesto, le persone vivono nel terrore. Ma la comunità agricola non si arrende “Se tagliano un albero ne piantiamo 600. Provano a cambiare la geografia della nostra terra: non possiamo consentirlo. Dobbiamo alzarci ogni mattina e lottare per la nostra dignità”. 

L’impegno di Ghassan in tal senso si concretizza anche attraverso una cooperativa agricola: la “Land and farming cooperative association” cui partecipano ben 13 donne e 2 uomini, tra cui lui che la presiede. 

I 15 sono tutti laureati. La Palestina infatti è il Paese arabo con il tasso più alto di laureati: vanta enormi competenze a fronte di ridotte opportunità. 

I giovani associati dispongono di poco più di un ettaro e mezzo, hanno 3 serre, coltivano principalmente vegetali; stanno provando con la viticoltura ma è troppo cara. 

La cooperativa è straordinariamente innovativa per vari aspetti:

  • è agriecologica, sociale e rivoluzionaria.

Lavorano con il compost, hanno voltato le spalle all’industria dell’agrochimica, hanno creato un laboratorio dove studiare nuove tecniche, per esempio per contrastare il veleno che i coloni buttano sulla terra e sulle piante, e hanno creato una scuola di agroecologia, per trasferire le competenze acquisite.

Il 15% delle vendite va alla comunità di Burin e provvedono al sostentamento di 15 famiglie in difficoltà economica dando loro gratuitamente il raccolto necessario al sostentamento.

Infine uomini e donne lavorano insieme, una sinergia non prevista dalla cultura locale.

Ghassan riassume dicendo che la loro è una sfida tripla:

contro gli assalti dei coloni, contro l’industria agrochimica, prettamente israeliana, che li minaccia perché non acquistano i loro prodotti, e contro i contadini locali, per cui il valore ecologico è difficile da comprendere essendo schiacciati da anni di logica chimica oltre che da dinamiche culturali poco intersezionali.

Ma i frutti di questo lavoro arrivano e come dice Ghassan “finora non abbiamo fatto soldi ma abbiamo fatto passare un’idea e ora i contadini vengono a chiederci consiglio, vogliono entrare nella cooperativa”.

A fronte di questo sorriso, di questa energia straordinaria per la dignità di tutte e tutti i palestinesi, le difficoltà restano altissime.

Burin è in Area C per il 90% del territorio, quindi sotto controllo militare e civile israeliano secondo gli Accordi di Oslo, il che rende pressoché impossibile accedere alla terra occupata da Israele. L’acqua per irrigare, qui, costa 5 volte più del prezzo pagato dagli agricoltori israeliani. Un accesso all’acqua che è contingentato in tutta la Palestina. Le sorgenti sono arbitrariamente annesse dai coloni. Delle 7 presenti nel territorio di Burin, per esempio, 5 sono controllate dai coloni, inaccessibili ai locali. I mercati ortofrutticoli palestinesi sono invasi da prodotti israeliani e il sostegno governativo agli agricoltori israeliani è a esclusivo vantaggio di quest’ultimi. È una lotta impari su tutti i fronti, per questo la cooperativa agroecologica Land and farming cooperative association si appella al sostegno internazionale per l’acquisizione di competenze agroecologiche, per lo scambio di buone pratiche o per accogliere progetti tesi alla realizzazione di perimetrazione delle terre, del sistema di irrigazione, di compost. l’Italia condivide con la Palestina la tradizione agricola mediterranea e vanta un primato nella produzione ecologica: l’occasione per una solidarietà partecipata è servita!