Un aggiornamento relativo alla complessa situazione che sta vivendo il Kosovo è stato fornito lo scorso 3 luglio dall’inviato speciale dell’Unione Europea per il dialogo tra Belgrado e Prishtina, Miroslav Lajčak, secondo il quale, nonostante le misure adottate per ridurre le tensioni, tornate a un livello preoccupante nelle ultime settimane ed esasperate dalla decisione delle autorità albanesi kosovare di insediare i “sindaci”, eletti con pochi voti dopo il completo boicottaggio delle elezioni da parte dei serbi del Kosovo, nei Comuni del Nord, la situazione nell’area resta ancora particolarmente fragile. Lajčak ha ricordato, inoltre, di avere avuto un confronto con i membri della Commissione Esteri del Parlamento Europeo e con il direttore della Direzione generale per le politiche di vicinato e di allargamento sulla situazione nel Nord del Kosovo e sugli ultimi sviluppi nel dialogo tra le parti. Non sembra tuttavia emergere, da quanto si può riscontrare, una chiara volontà politica da parte degli attori internazionali di facilitare concretamente il superamento della situazione di tensione e di muovere passi significativi per il rispetto degli accordi, riattivare la fiducia e ripristinare il percorso di dialogo tra Belgrado e Prishtina.

D’altra parte, la chiusura mostrata dalle autorità nazionaliste albanesi kosovare è stata rimarcata perfino dall’Ambasciata degli Stati Uniti, al punto che, come riferito dalla stampa, lo stesso ambasciatore in Kosovo, Jeffrey Hovenier, ha mostrato preoccupazione e disappunto: «Siamo sorpresi. È difficile capire perché queste richieste non abbiano ricevuto una risposta positiva e non sembra che la riceveranno. È chiaro che ci saranno conseguenze se andremo avanti in questo modo, con il governo del Kosovo che non risponde alle richieste dei Paesi amici che hanno mostrato tutto il loro sostegno per uno o due decenni al fine di vedere il Kosovo avere il proprio posto in Europa e nelle istituzioni euro-atlantiche».

Continuano, infatti, nel Kosovo del Nord, tensioni e provocazioni. La Srpska Lista (Lista Serba), la forza politica più rappresentativa dei serbi del Kosovo, ha ribadito, ancora il 3 luglio, la richiesta alla KFOR e alla EULEX di aumentare la loro presenza nel Nord, in particolare a Kosovska Mitrovica. Il fine è quello di prevenire intimidazioni e provocazioni che potrebbero fungere da vere e proprie “false flags” ed essere utilizzate come pretesto dalle autorità di Prishtina per incrementare la presenza delle forze speciali della polizia kosovara, una presenza tanto aggressiva quanto controversa, nel Kosovo del Nord.

In un comunicato, la Srpska Lista ha condannato l’incidente occorso la sera del 2 luglio, quando persone non ancora identificate hanno lanciato un ordigno nei pressi dell’area dei Tri Solitera, a Kosovska Mitrovica, a ridosso del ponte principale, zona storicamente sensibile dal punto di vista delle tensioni sociali e inter-comunitarie, provocando inquietudine e sconcerto tra i serbi del Kosovo. Secondo il comunicato, «siamo convinti che ciò sia stato fatto deliberatamente per giustificare l’aumento della presenza di forze speciali armate e di veicoli blindati che ieri sera erano nelle strade di Kosovska Mitrovica subito dopo l’incidente».

La preoccupazione non è solo quella di un aumento delle forze speciali nel Nord, ma anche di una escalation della repressione e di ulteriori arresti tra i serbi. Si afferma la sfiducia che anche di questo episodio difficilmente saranno individuati i responsabili e che il clima di impunità nei confronti di episodi del genere contribuisca ad aumentare sfiducia e tensione.

Come in un precedente incidente, registrato nei pressi del palazzo municipale, così anche l’incidente presso Tri Solitera è avvenuto in un’area che è stata per settimane sotto il completo controllo delle unità speciali albanesi kosovare. Come prosegue il comunicato, «per questo ribadiamo la richiesta alla KFOR e alla EULEX di rafforzare la loro presenza nel Nord del Kosovo, soprattutto a Kosovska Mitrovica, per prevenire questi incidenti strumentali, che il regime di Kurti usa come alibi per giustificare la presenza delle unità di polizia, il maltrattamento e l’arresto dei serbi del Kosovo».

Non sfugge, infatti, che tali rinnovati episodi di tensione siano avvenuti all’indomani di una festa molto evocativa e sentita della comunità serba del Kosovo, il Vidovdan, il giorno di San Vito, che cade il 28 giugno, una data non priva di richiami simbolici e memoriali, e quindi culturali e politici, per il popolo serbo. Una giornata festiva condivisa, peraltro, con gli albanesi del Kosovo, che hanno osservato lo stesso giorno la celebrazione dell’Eid al-Adha, la festa del sacrificio, una delle due maggiori celebrazioni islamiche insieme con l’Eid al-Fitr. Per il Vidovdan migliaia di serbi provenienti da tutte le parti del Kosovo, dalle città, dai villaggi, dalle enclavi, per quanto possibile, hanno preso parte alla cerimonia presso il monastero di Gračanica, un luogo della cultura e della memoria di grandissima importanza, patrimonio mondiale dell’umanità riconosciuto dall’UNESCO.

La celebrazione non è priva di connotazioni religiose e politiche ed è un osservatorio privilegiato per cogliere un’angolatura del discorso nazionale serbo sul Kosovo, tanto significativo quanto controverso, e che tuttavia fa parte di una memoria culturale e collettiva di lunga durata. Nel discorso del patriarca Porfirje, il Kosovo è stato definito come «la nostra casa e il nostro cielo, perché nella terra del Kosovo il cielo è il fondamento. Sappiamo che dove c’è il paradiso c’è posto per ciascuno, per mostrare che tutti hanno bisogno gli uni degli altri, non importa come preghino Dio o a quale nazione appartengano, perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio».

Non a caso è stata ricordata anche la concomitante celebrazione islamica: «Ci congratuliamo da questo luogo per l’Eid al-Adha con tutti i fratelli musulmani in questa terra del Kosovo. Possano anche loro pregare per la pace nella nostra anima. Allora, quando avremo pace nella nostra anima, capiremo che il Kosovo è una terra santa, proprio come Gerusalemme.» Una sapiente interpolazione, come si vede, di elementi tipici della tradizione nazionale e religiosa serba (la “Serbia celeste”, la sacralità del Kosovo) con messaggi di fratellanza (il Kosovo per tutti, il dialogo tra le religioni).

A fronte di leadership nazionaliste che spesso frappongono ostacoli e ostruzionismi al percorso del dialogo e alla costruzione della fiducia, nel contesto di un quadro politico, nella maggioranza albanese kosovara che governa la regione, segnato da pulsioni nazionalistiche e tentativi di prove di forza, non mancano le espressioni politiche e sociali che provano, viceversa, a spingere per una più compiuta assunzione di consapevolezza e per una più solida accelerazione del dialogo e della ricomposizione.

Come sul versante albanese kosovaro non mancano le critiche alle modalità con le quali l’autogoverno regionale di Kurti sta gestendo la situazione, con il rischio tra l’altro di isolare il Kosovo, senza peraltro dedicarsi con il medesimo impegno ai gravi problemi economici e sociali che ancora attraversano la regione, così sul versante dei serbi del Kosovo si moltiplicano le voci per una soluzione positiva della controversia. Il recente appello della società civile serba in Kosovo, che Pressenza ha pubblicato in traduzione italiana, fa infatti esplicitamente riferimento alle tre questioni essenziali per ripristinare un clima positivo nella regione: la difesa della vita, della sicurezza e dei diritti dei serbi del Kosovo; nuove elezioni nei Comuni del Nord e la costituzione della Comunità dei Comuni serbi del Kosovo.

Quanto al primo punto, si chiede, in particolare, il ritiro di tutte le unità speciali di polizia dal Nord del Kosovo, dal momento che la loro presenza viola gli articoli 128 e 61 della Costituzione del Kosovo e l’articolo 9 dell’Accordo di Bruxelles del 2013. Inoltre, si chiede la risoluzione di tutti i casi di attacchi contro i serbi e le loro proprietà, compresa l’espropriazione illegale di terreni, e anche i recenti incidenti nel corso dei quali sono state utilizzate armi da fuoco da parte delle forze di sicurezza del Kosovo, nonché il rafforzamento delle misure di sicurezza nelle aree abitate dai serbi in Kosovo. Si chiede anche la fine della demonizzazione e della stigmatizzazione della comunità serba da parte di esponenti delle autorità albanesi kosovare, una stigmatizzazione, peraltro, molto diffusa anche presso il mainstreaming informativo occidentale, che fin troppo spesso tende a rappresentare i serbi del Kosovo e le loro rappresentanze politiche e sociali come “usate” o “manipolate” da Belgrado.

Quanto al punto cruciale, non è più rinviabile la formazione della Comunità dei Comuni serbi del Kosovo, in base all’Accordo di Bruxelles dell’aprile 2013 e ai principi di base per la formazione della Comunità dei Comuni serbi dell’agosto 2015; si tratta di accordi firmati tanto dalla parte albanese quanto da quella serba, il cui disconoscimento da parte dell’attuale leadership di Prishtina è una spia dell’atteggiamento e dell’approccio nazionalistico dell’odierna leadership albanese del Kosovo.

Il motivo della messa in discussione dell’accordo, vale a dire, in sostanza, il timore che la Comunità possa costituire una sorta di Republika Srpska 2.0, condannando la regione alla divisione e all’ingovernabilità, è infatti del tutto pretestuoso: mentre in Bosnia la presenza delle due entità, tra cui la Republika Srpska, è frutto di un trattato internazionale, l’Accordo di Dayton, con cui si è posto fine alla guerra, in un contesto di forti comunità nazionali, ove i bosgnacchi rappresentano circa il 50% della popolazione, i serbi oltre il 30% e i croati oltre il 15%, l’indipendenza del Kosovo ha fatto seguito alla guerra di aggressione della NATO alla Jugoslavia e non è riconosciuta dalla comunità internazionale in quanto tale. E’ tuttora in vigore la risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza, mentre la composizione etnica è sempre più asimmetrica, con gli albanesi che costituiscono il 92% della popolazione, i serbi grosso modo il 5% e le altre comunità circa il 3%. Laddove la Republika Srpska in Bosnia è una entità statale, con propria Costituzione, istituzioni e amministrazione proprie, la prevista Comunità dei Comuni serbi in Kosovo sarà istituita «sulle stesse basi dello statuto vigente della Associazione dei Comuni del Kosovo» e «in linea con le competenze indicate dalla Carta europea delle autonomie locali».

Uno scenario complesso, dunque, la complessità tipica di un lungo post-conflitto, segnato da tensioni irrisolte; andrebbero moltiplicati gli sforzi, rafforzato e reso operativo il quadro di tutela dei diritti, impostate e attivate politiche per fuoriuscire dalla spirale della crisi e della povertà, organizzata e implementata una compartecipazione effettiva alla costruzione di un Kosovo “di tutti/e e per tutti/e”.