C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando” è l’ultimo documentario/film di Federico Greco e Mirko Melchiorre che sta girando nelle sale di tutta Italia raccontando lo stato della sanità italiana e mondiale a partire dalla lotta per riaprire un piccolo ospedale chiuso in Calabria. Ne parliamo con Mirko Melchiorre.

 Come è nato il progetto del documentario?

L’idea del documentario nasce nel novembre del 2020.

Noi ci trovavamo in Calabria perché stavamo realizzando delle riprese nell’ospedale pubblico di Crotone, dove Gino Strada con Emergency era stato chiamato in supporto della sanità pubblica per gestire la seconda ondata di Covid.

Mentre eravamo lì, abbiamo scoperto che pochi km più a nord, in un piccolo Comune chiamato Cariati, alcuni attivisti avevano occupato l’ospedale del loro paese, chiuso da più di dieci anni a causa delle politiche d’austerity, per chiederne la riapertura. Questo ci ha tremendamente incuriosito e siamo andati subito a conoscere questi ragazzi. Dai loro racconti e dalla loro lotta abbiamo capito quanto quel territorio vivesse in una drammatica emergenza sanitaria da molto prima dell’avvento del Covid e come quella situazione fosse figlia di anni di definanziamento e di tagli alla spesa sanitaria.

Io e Federico erano diversi mesi che ragionavamo sulla possibilità di realizzare un secondo documentario, dopo Piigs, che indagasse gli effetti delle politiche neoliberiste e globaliste sulle vite di tutti noi ed eravamo anche stanchi, dopo più di dieci mesi di emergenza Covid di sentire tutto quell’allarmismo (conteggio morti, limitazioni libertà individuali) e quella retorica (medaglie agli infermieri eroi) da parte della stampa e della politica nella narrazione ufficiale. Lì abbiamo capito quanto fosse necessario fare un lavoro per indagare davvero lo stato di salute della sanità pubblica Italiana.

Dal caso di un piccolo ospedale chiuso in Calabria si arriva a parlare della sanità a livello mondiale. Qual è il filo conduttore?

Anche nel nostro primo documentario, Piigs, il pretesto narrativo era una storia locale, la storia della cooperativa Il Pungiglione. Quello è un po’ il filo conduttore che lega il primo film a questo.

Il doppio binario narrativo, micro e macro, ha un doppio significato. Da una parte per noi è importante dare al documentario una narrazione cinematografica, fare lavori di sola indagine stile Report non ci interessa. Questo perché abbiamo un background cinematografico e non televisivo. Il nostro obiettivo non è dare solamente informazioni, ma è raccontare una storia che possa coinvolgere ed emozionare lo spettatore, perché crediamo nella forza comunicativa del cinema, che passa, oltre che dalla ragione, attraverso il coinvolgimento emotivo.

Il secondo motivo è il fatto che avere una storia locale, che racconti la vita di persone comuni, ti permette di poter vedere immediatamente e allo stesso tempo le relazioni di causa-effetto di determinate scelte politiche economiche attuate ai livelli più alti. Questo consente un’estrema libertà creativa e ti permette, come nel nostro film, di collegare le politiche neoliberiste del Washington consensus, della Federal Reserve o di Davos, per esempio, alla vita di tutti noi. Qualcosa che risulterebbe astratto e incomprensibile, di colpo risulta drammaticamente concreto e influente sulle nostre vite.

Come sta andando il tour del documentario?

Il tour sta andando molto bene. Sono ormai 13 settimane di distribuzione ufficiale. Stiamo facendo diverse proiezioni in giro per l’Italia e la cosa bella è che ci sono sempre ottimi feedback da parte del pubblico. Il coinvolgimento è tale che sono proprio loro attraverso il passaparola e la condivisione a permettere al film di continuare ad avere questa diffusione capillare.

Stiamo lanciando questo metodo distributivo del cinema on demand: comitati, associazioni o reti, persone interessate a vedere il film, che vanno direttamente alle sale cinematografiche sui loro territori e chiedono di proiettarlo. L’esercente ovviamente se vede che c’è interesse e la possibilità di avere una buona affluenza dà sicuramente disponibilità. A quel punto si mette in contatto l’esercente della sala con il distributore e una volta chiuso l’accordo si programma la serata. Io e Federico, quando possibile, siamo sempre disponibili a partecipare alle proiezioni e a fare dei piccoli dibattiti insieme al pubblico.

Come reagiscono le persone alla sua visione? Sta aumentando secondo te la consapevolezza sull’espropriazione della sanità pubblica da parte del profitto?

Come dicevo prima, da parte del pubblico c’è molta partecipazione e coinvolgimento. Quando a margine delle proiezioni facciamo dei piccoli dibattiti ci rendiamo conto che il caso calabrese che raccontiamo nel film non è un caso isolato, ma che anzi ormai ovunque sono evidenti gli effetti dello smantellamento della sanità pubblica, anche in regioni che crediamo “ricche” come Lombardia, Veneto, Emilia Romagna o Toscana. I cittadini che incontriamo sono tutti consapevoli di ciò che sta accadendo.

Quello che manca però è un’idea chiara e la consapevolezza di quelle che sono le cause e i responsabili. Purtroppo anni di narrazione della propaganda capitalista neoliberista hanno offuscato e reso difficile un’analisi completa della situazione. Hanno spostato l’attenzione sulle nostre responsabilità, sul nostro vivere al di sopra delle nostre possibilità, sul non poterci permettere una sanità gratuita per tutti, sugli sprechi e sul malaffare della sanità pubblica. Il nostro film prova a fare proprio questo, cerca di scavare e di superare questi luoghi comuni. Quello che ne esce è un quadro desolante, una volontà ben precisa di fare implodere su se stessa la sanità pubblica per poter consentire l’ingresso di soggetti privati locali o internazionali, che saranno liberi di gestire come merce la nostra salute.