Prima l’arresto di Dejan Pantić, membro della polizia del Kosovo, per presunte e non meglio precisate “attività terroristiche”, arresto a seguito del quale le comunità serbe del Kosovo del Nord hanno iniziato a erigere, in segno di protesta, barricate e blocchi stradali. Poi l’arresto di Sladjan Trajković, anche lui membro della polizia del Kosovo, con l’accusa di “crimini di guerra” e poi ancora, notizia di pochi giorni fa, l’arresto di Zoran Mihajlović, anch’egli membro della polizia del Kosovo.
Si tratta di una vera e propria, l’ennesima, escalation di tensione che sta attraversando il Kosovo, in particolare il Kosovo del Nord e che rischia di gettare sempre più benzina sul fuoco in un contesto già segnato da problemi irrisolti, rischi, instabilità. Le dichiarazioni che hanno fatto seguito ai primi fermi indicano del resto la gravità della situazione: secondo la Ministra degli Esteri dell’autogoverno kosovaro, Donika Gërvalla, «Non posso escludere che esista un desiderio da parte della Serbia di provocare incidenti in Kosovo, … ma non credo che gli avventurieri non sappiano che tali avventure porterebbero la Serbia in un vicolo cieco», aggiungendo anche, nella forma di una vera e propria “retorica di guerra”, che «le minacce della Serbia, Paese con una ben nota tradizione di aggressioni, sono intollerabili … e il presidente serbo Aleksandar Vučić è la personalità maggiormente pro-Putin in tutti i Balcani».
L’intervento repressivo nel Nord del Kosovo da parte delle forze di polizia kosovara rappresenta un’ulteriore escalation in una situazione di tensione che va avanti in realtà da mesi. Lo dimostra anche la recente vicenda della messa fuorilegge delle targhe serbe e dell’introduzione dei documenti di ingresso per i serbi in Kosovo, sullo sfondo dello stallo del processo negoziale e della riluttanza, da parte dell’autogoverno kosovaro, a dare seguito agli accordi già firmati, a partire dagli Accordi di Bruxelles e dalla costituzione, prevista negli accordi, della Comunità dei Comuni serbi del Kosovo. Secondo quanto ha dichiarato, nel corso di quest’ultima escalation, il direttore dell’Ufficio del governo serbo per il Kosovo e Metohija, Petar Petković, «il nuovo arresto dell’ex membro serbo della polizia del Kosovo, Sladjan Trajković, mostra che Albin Kurti continua a dare la caccia ai serbi, non ha alcuna intenzione di placare la tensione e promuovere la de-escalation della situazione. Come fanno a spuntare improvvisamente prove contro i serbi che hanno lasciato le istituzioni kosovare quando non è mai emerso niente quando facevano parte di quelle stesse istituzioni?».
L’ondata repressiva scatenata dalle autorità kosovare segue le proteste dei serbi del Kosovo, che hanno portato anche a una vera e propria crisi politico-istituzionale: i serbi si sono dimessi infatti dalle istituzioni dei quattro Comuni del Kosovo del Nord (Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e Kosovska Mitrovica), sull’onda della crisi delle targhe e dei documenti, a seguito della sospensione del direttore regionale della polizia del Kosovo del Nord, Nenad Djurić, per aver dichiarato l’intenzione di resistere agli ordini delle autorità di Prishtina.
Nel corso delle proteste, si sono registrate ulteriori dimissioni, anche da parte di personale della polizia e diversi agenti si sono simbolicamente tolti le divise, in segno di protesta contro le decisioni di Prishtina. Già all’inizio di novembre, il presidente della Srpska Lista, la principale forza politica dei serbi del Kosovo, Goran Rakić, aveva sottolineato che i serbi avrebbero lasciato tutte le istituzioni politiche, a partire dal Parlamento kosovaro, così come i quattro Comuni del Kosovo del Nord, nonché la magistratura, la polizia e la pubblica amministrazione. Come è stato annunciato in tale circostanza, tali decisioni sarebbero state mantenute fino al ritiro della decisione unilaterale sulle targhe e fino all’avvio del processo di costituzione della Comunità dei Comuni serbi, il punto centrale degli Accordi di Bruxelles, già approvati da entrambe le parti, la cui implementazione è stata tuttavia bloccata dalle autorità dell’autogoverno kosovaro.
L’escalation di tensione, proseguita nelle settimane successive e giunta alla situazione di grave instabilità degli ultimi giorni, rischia di portare a nuovi rischi. Dopo la riunione del governo serbo dello scorso 15 dicembre, Vučić ha comunicato la decisione di «inoltrare richiesta ufficiale al comando della missione NATO KFOR per il rientro, in numero definito nell’ordine di grandezza delle centinaia, fino a un massimo di mille unità, delle forze militari serbe in Kosovo», aggiungendo poi, in riferimento alla NATO, che «non volevano nemmeno ascoltarlo, perché è come un dito nell’occhio per coloro che intendono prendere decisioni su di noi senza di noi».
Per poi, significativamente, aggiungere: «Questo è il documento n. 1 – la Carta delle Nazioni Unite. Questo è il documento n. 2 – la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Il documento n. 3 – l’Accordo tecnico-militare. Il documento n. 4 – gli Accordi di Bruxelles. Il documento n. 5 – gli Accordi di Washington. Il documento n. 6 – La dichiarazione di Salonicco. Adesso stiamo preparando il documento n. 7».
In base alla risoluzione vigente 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza, infatti, al Kosovo, riconosciuto oggi solo da 98 sui 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, sono riconosciute «una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione», confermando, altresì, «la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava [oggi Serbia] e degli altri Stati della regione, come indicato nell’Atto finale di Helsinki». L’art. 4 prevede che «dopo il ritiro, a un numero concordato di personale militare e di polizia jugoslavo e serbo sarà consentito il ritorno in Kosovo per svolgere le funzioni come da Allegato 2», che sintetizza il processo per giungere a un «accordo sui principi generali per procedere verso una risoluzione della crisi del Kosovo».