Durante la Covid-19 vi è stata una sospensione di giudizio politico su tutto ciò che i governi hanno approvato. È stato un periodo di “tenebre epistemologiche”, per dirla con l’antropologo Taussig: negli spazi del terrore non è possibile stabilire cos’è vero e cos’è falso, cos’è successo a me e cosa ad altri, cos’è davvero accaduto e cosa è stato solo fantasticato1. Di questo ne parliamo con Stefania Consigliere, antropologa presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, dove insegna Antropologia dei Sistemi di Conoscenza e dove ha organizzato due edizioni del master di secondo livello in etnomedicina ed etnopsichiatria. Coordina il Laboratorio Mondi Multipli, luogo di ricerca e di sperimentazione delle conseguenze ontologiche, epistemologiche, etiche, politiche ed esistenziali che derivano dal precetto antropologico di «prendere gli altri sul serio». È autrice di oltre 130 pubblicazioni, fra cui Sul piacere e sul dolore. Sintomi della mancanza di felicità (DeriveApprodi, 2004), Il disagio dell’inciviltà (Colibrì 2008; con P. Coppo e S. Paravagna), Antropologiche. Mondi e modi dell’umano (Colibrì 2014) e Mondi multipli (Kainos 2014). Tra il 23 e il 25 aprile 2021 è tra le promotrici del convegno “Tutta un’altra storia”23, un luogo di dibattito critico a sinistra in cui scienziati sociali e compagni hanno discusso sulle politiche pandemiche, sulla gestione medica ufficiale, sui Dpcm, sullo Stato d’eccezione permanente, sull’obbligatorietà vaccinale, sul pluralismo terapeutico, sul concetto olistico di diritto alla salute e sulle politiche punitive e autoritarie del Green Pass. Consigliere dedica l’intervista “Alle compagne e ai compagni di Tutta Un’Altra Storia: per la circolazione sanguigna della fiducia; perché siete il discorso critico che portate; e per tutte le risate.”

Cosa non è andato, secondo lei, nella gestione della crisi pandemica, o forse, sindemica?

Sceglierei indubbiamente di definirla crisi sindemica, vocabolo che viene dall’antropologia medica e indica la compresenza, in una certa popolazione, di due o più malattie come conseguenza di ingiustizia sociale o di violenza strutturale. Nel caso della Covid-19, l’agente virale ha attraversato un’enorme varietà di situazioni antropologiche, ecologiche e sociali, con effetti assai differenti a seconda del contesto. Ci sono luoghi dove la malattia polmonare ha avuto gioco facile perché l’inquinamento aveva già indebolito la salute delle popolazioni (è una delle ipotesi più solide avanzate per spiegare il disastro lombardo); altri in cui la povertà ha aumentato l’esposizione al virus o reso impossibile curarsi (è il caso dei cosiddetti “lavoratori di prima linea”, spesso precari, sottopagati e non sindacalizzati); altri ancora in cui una lunghissima storia di violenza razziale ha reso la malattia più pericolosa per una certa parte della popolazione (negli Stati uniti, ad esempio, neri e ispanici sono stati colpiti in percentuali maggiori rispetto ai bianchi). Non c’è quindi un solo covid-19 uguale per tutti, ma tanti covid-19 quanti sono i diversi contesti sociali, economici, culturali ecc.

Restando alla sindemia, però, c’è di più. Finché si parla di inquinamento, sfruttamento e razzismo non è difficile capire il ruolo della violenza nell’andamento della malattia. Meno evidente, ma altrettanto pericolosa, è la violenza trasversale agita sotto forma di terrore pandemico e distruzione dell’esistente. A partire dal febbraio 2020, i canali d’informazione hanno condotto un’ossessiva campagna del terrore che descriveva il covid-19 come enormemente contagioso e incurabile, sciorinando a ogni passo la conta dei morti e le proiezioni più catastrofiche. A fronte di ciò, siamo stati sottoposti a una misura draconiana, presentata come “sola scientifica” ma di fatto mai sperimentata prima (il lockdown dell’intera popolazione nazionale); la medicina di base e territoriale è svanita nel nulla; e le relazioni di mutuo sostegno e cura reciproca – prima linea di difesa in ogni circostanza un po’ rischiosa – sono state recise e criminalizzate. Mi chiedo allora se una parte della mortalità da covid-19 non sia stata causata anche dalla paura indotta, da misure inumane, dalla distruzione della vita in nome della sopravvivenza.

Un momento critico è stato trasformato in una catastrofe. Quest’inizio così atroce ha deciso il timbro dell’intera gestione pandemica: i DPCM che, di settimana in settimana, modificavano il panorama; l’indecidibilità delle azioni più comuni (andare al banco del bar, salutare un amico, prendere un treno); lo scacchiere stroboscopico delle zone a colori; i banchi a rotelle; la DAD; il green pass e il super green pass; l’obbligo vaccinale per le categorie più simboliche di lavoratori statali (sanitari, docenti, forze armate) e il ricatto salariale come “spintarella” per costringere tutti gli altri al vaccino; uomini armati che controllavano gli scolari sui bus; mascherine a scuola e sui mezzi pubblici quando tutto era già finito. I diversi interventi si sono succeduti secondo un registro di assurdità e crudeltà crescenti, che aveva molto più a che fare col controllo militare di popolazione, territori e coscienze che con la risposta a un problema di salute pubblica.

Nell’affrontare la crisi vi è stato un approccio alla molteplicità/complessità o vi è stato un approccio alla banalizzazione/semplificazione?

Questa è facile… La gestione della pandemia è stata l’apoteosi della semplificazione, della riduzione, della banalizzazione e, in poche parole, della bétise descritta da Flaubert e Deleuze: una forma di stupidità attiva, entusiasta e sicura di sé fino all’arroganza; un oltranzismo delle buone intenzioni sostenuto da una ragione tanto idiota quanto incrollabile.

Si è trattato il virus Sars-Cov-2 come unica causa della malattia Covid-19, ignorando la varietà delle condizioni sociali ed ecologiche in cui le persone vivono, il “terreno” biografico in cui essa s’inserisce, le differenti possibilità di accesso alle informazioni, alle cure, alla solidarietà del prossimo. Si è applicata universalmente e senza alcun distinguo una misura inaudita come il lockdown, che magari andava bene per la classe medio-alta con stipendio garantito e casa di proprietà, ma che è pesata in modo tremendo sulle altre classi (e che, fuori dai confini dell’Occidente, è arrivata a causare morte). Contro ogni buon senso terapeutico, si è ipotizzato che, in assenza di una singola cura altamente specifica, il covid-19 fosse incurabile – come se i medici non prescrivessero abitualmente cure sintomatologiche efficaci. Per finire, fin da subito si è descritto il vaccino, al singolare, come unico soccorso per uscire dalla crisi.

In tutto questo, la semplificazione del discorso pubblico – con l’espunzione di qualsiasi contraddittorio, la messa alla gogna delle posizioni esitanti o dissenzienti, la creazione del panico morale e la costruzione del “novax” come nemico pubblico – ha avuto una parte fondamentale. Un blocco epistemologico è calato fin da subito a squalificare e silenziare ogni dubbio e ogni esitazione: penso, ad esempio, agli attacchi subiti dal collettivo Wu Ming per aver tenuto aperto, nel loro blog, uno spazio di discussione, o al linciaggio pedagogico («colpirne uno per educarne cento») di Giorgio Agamben, declassato nel giro di una notte da più grande filosofo vivente a peggior canaglia del dopoguerra. A fine estate 2021 il blocco era diventato paralisi: per accedere al diritto parola bisognava dichiarare il proprio statuto vaccinale; i grandi nomi della tradizione critica novecentesca (Feyerabend, Foucault, Anders, Illich, Stengers, l’epistemologia femminista) non si potevano più menzionare; molti di coloro che fanno lavoro culturale e di conoscenza si sono trovati impossibilitati a riproporre temi e discorsi che, fino al giorno prima, erano ovvii.

Questo, fra tutti, è il fenomeno che m’inquieta di più: perché, se a fronte di qualcosa di sconosciuto, è lecito a tutti (politici, medici, economisti, intellettuali) fare ipotesi erronee, tirare a indovinare e perfino varare misure fallimentari, quel che invece non è mai lecito è bloccare la discussione, imporre verità apodittiche con lo squadrismo intellettuale, estorcere fedeltà a un Credo qualsiasi.