Commettendo ciò che molti giornali chiamano “il lapsus freudiano del secolo”, l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha inavvertitamente definito la propria invasione dell’Iraq nel 2003 come “ingiustificata e brutale.” Proprio ciò che Julian Assange aveva rivelato 12 anni fa.

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L’ex presidente George W. (“Dubja”) Bush si era rivolto mercoledì scorso, 18.5.2022, ad una platea di ammiratori riunitisi al Centro Studi a lui dedicato a Dallas, Texas, presso l’Università Metodista del Sud. Il tema del suo discorso era l’invasione dell’Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin – un disastro che Bush ha attribuito al fatto che la Russia non ha il sistema di controlli e di contrappesi tra i vari poteri dello Stato che caratterizza il governo statunitense.

Invece in Russia, ha asserito Bush, un solo uomo comanda e, nel caso dell’Ucraina, “un solo uomo ha potuto scatenare in maniera ingiustificata e brutale l’invasione…” … ora il lapsus… “… dell’Iraq – voglio dire, dell’Ucraina.” Poi una piccola risata d’imbarazzo.

Ma non finisce qui. Bisogna osservare attentamente nel video il linguaggio del corpo successivo: i giornali italiani non ne hanno parlato, forse per non infierire. Notate i cenni del capo, prima a sinistra (accompagnato da un mezzo sorrisetto malizioso) e poi a destra, accompagnati da una leggera alzata di spalle e poi un inclinarsi in avanti come se Bush volesse scrollare qualcosa di dosso e passare all’attacco, mentre pronunciava queste parole: “Già, anche Iraq. In ogni modo…”

Questo insieme di esternazioni verbali e non verbali comunicano il seguente significato: “Già, anche in Iraq – ma chi se ne importa (heh heh heh). Passiamo ad altro.” E i suoi ammiratori a ridacchiare con lui. Neanche uno di loro si è alzato, indignato, per interrompere Bush e chiedergli: “Davvero non t’importa nulla che la tua invasione dell’Iraq sia stata ingiustificata e brutale?”

Fino ad oggi nell’Ucraina, secondo quanto afferma il governo di Kiev, sono morti circa 13.000 civili (secondo l’ONU, 3.000) mentre, con la sua invasione dell’Iraq nel 2003, Bush ha ucciso ben 300.000 iracheni (forse 600.000: Lancet), la stragrande maggioranza civili.

Ora scrollarsi di dosso centinaia di migliaia di morti con un’alzata delle spalle e un ghigno, come ha fatto Bush, è un atteggiamento, non da statista, ma da “killer” professionista. Lo scorso marzo Biden ha applicato quell’epiteto a Putin e ci si chiede come mai, neanche una volta nei diciannove anni dal 2003 a oggi, non l’abbia applicato al suo predecessore alla Casa Bianca, viste le ecatombi infinitamente peggiori che Bush ha provocato. E non soltanto in Iraq.

Oggi i nostri mass media, per battere i tamburi di guerra, amano descrivere Putin come “il nuovo Hitler”. Epiteto ridicolo e spropositato. I carri armati di Hitler sono arrivati fino all’Atlantico, mentre quelli di Putin non sono arrivati neanche a Kiev, che è la porta accanto. Ora, grazie all’ammissione (involontaria) dello stesso ex presidente degli Stati Uniti lo scorso mercoledì a Dallas, abbiamo un termine più appropriato: Putin non è affatto il nuovo Hitler, è semmai il nuovo Bush.

E forse neanche quello. In fondo, Bush supera Putin di gran lunga. Come abbiamo visto, in Iraq ha seminato 100 volte più vittime. Inoltre ha invaso paesi sovrani in ben tre continenti, contemporaneamente! In quanto alla brutalità, nell’assedio che Bush ha ordinato della città irachena di Fallujah, grande quanto la città ucraina di Mariupol recentemente messa sotto assedio dai russi, i marines statunitensi hanno stanato i resistenti utilizzando il vietatissimo fosforo bianco per bruciare gran parte della città, ancora abitata. In altre parole, i marines hanno bruciato vivi, oltre ai combattenti, bambini, anziani, donne di ogni età. Invece a Mariupol gli ultimi resistenti e i loro scudi umani sono fatti uscire vivi.(Vedere il documentario sull’uso di fosforo bianco a Fallujah realizzato per RAI News24 da Sigfrido Ranucci e Maurizio Torrealta nel 2005 e che ne descrive tutto l’orrore.)

Ma evidentemente per Bush, che agiva in Iraq davvero da “Nuovo Hitler” (ha persino allestito, insieme ai britannici, numerosi centrali di tortura tipo Gestapo), quelle vite umane non avevano peso. E – come constatiamo dal suo discorso mercoledì a Dallas – continuano a non averne oggi. Forse perché i fallujiani uccisi dai marines non erano belli e biondi sostenitori della NATO, come lo sono gli ucraini che Bush ha elogiato all’inizio del suo discorso mercoledì scorso. Erano di carnagione scura e anti NATO (o meglio, anti “Coalizione dei volonterosi”) – quindi per lui è come se non esistessero. A tal punto che sarebbe inutile rimproverargli oggi di aver ucciso in Iraq cento volte più civili di quanto i russi non ne abbiano uccisi finora in Ucraina: per Bush, cento volte zero rimane sempre zero.

E non solo per Bush. All’epoca dell’invasione USA dell’Iraq, quei morti apparivano molto di rado sulle prime pagine o nei telegiornali. Le sofferenze che Bush, con la sua invasione, ha causato alle singole famiglie irachene non sembravano interessare gli editori – certamente non come interessano oggi le sorti delle singole famiglie ucraine nelle città toccate dal conflitto con la Russia.

Invece, durante l’occupazione USA dell’Iraq durata quasi dieci anni, i giornali e le TV ponevano l’attenzione dei loro lettori e telespettatori sugli attacchi che le forze USA subivano da parte di chi resisteva: “Vedete, cari lettori, i nostri boys non sono gli aggressori, sono le vittime dei guerriglieri iracheni”, raccontavano i servizi TV e giornalistici, in un incredibile rovesciamento dei ruoli. Incredibile ma che ha fatto presa: infatti, la maggioranza della popolazione in tutti i paesi occidentali credeva davvero che le truppe statunitensi non facessero affatto la guerra, bensì solo il peacekeeping (mantenimento della pace) per disarmare i fanatici iracheni che combattevano per non si sa cosa.

In pratica, i mass media occidentali dal 2003 al 2010 raccontavano l’Iraq come i mass media russi oggi raccontano l’Ucraina. Il quotidiano russo Izvestia presenta il conflitto asetticamente, quasi senza morti o devastazioni, così da convincere la popolazione russa della bontà e della giustezza dell’“operazione militare speciale” in corso, la quale non andrebbe assolutamente considerata una guerra – proprio come le operazioni USA in Iraq o in Afghanistan venivano chiamate non guerre,  ma “peacekeeping”.

Almeno, così fino al 2010. Poi apriti cielo.

Il 22 ottobre 2010, Julian Assange, un giornalista/editore australiano che ha creato il sito WikiLeaks, rivelò i War Logs dell’Iraq e dell’Afghanistan, documenti militari ufficiali che lasciavano intravedere tutto l’orrore di una guerra vera e propria – altro che “peacekeeping”! – condotta dalle forze statunitense in quei due paesi. Assange squarciò il velo di menzogna steso dal Pentagono sulle sue operazioni all’estero. Queste e rivelazioni sono poi servite a creare, nella pubblica opinione statunitense, un tale disgusto verso le due guerre che, alla fine, il Pentagono non ha avuto altra scelta che di ritirare le truppe e di dichiarare forfait.

Rivelare la verità è servita a sconfiggere i baroni della guerra. I quali hanno giurato, poi, di farla pagare a Julian Assange, incarcerandolo a vita o, se ciò non dovesse essere possibile, assassinandolo. Assange è tuttora imprigionato a Londra in attesa di essere estradato, appunto, negli Stati Uniti, cioè nel paese che aveva complottato la sua uccisione.

Di tutto questo si parlerà al Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza, dal 2 al 5 giugno a Roma, quartiere San Lorenzo, e segnatamente negli interventi di Enzo Brandi e di Stefania Maurizi (intervistata da Nena Diaz di FREE ASSANGE Italia) in programma per sabato, 4 giugno, alle ore 13. Il trailer si può vedere cliccando qui.

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