A tre mesi dalla data che ha sconvolto la vita di milioni di persone in Europa e nel resto del mondo dando il via a una nuova spirale di violenza in Ucraina e di repressione in Russia, ReCommon pubblica il rapporto ‘La finanza va alla guerra: Intesa Sanpaolo tra industria fossile russa e gas statunitense’. 

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Intesa Sanpaolo è il gruppo finanziario italiano con le relazioni più strette con Mosca, curando tutti i principali investimenti italiani in Russia e viceversa. Tra il 2016 e il 2021, i finanziamenti concessi all’industria fossile russa ammontano a 4,9 miliardi di dollari. Di questi, 2,9 miliardi alla sola Gazprom, principale società energetica controllata dallo Stato, che può fare il bello e il cattivo tempo quando si tratta di export di gas russo verso l’Europa, di cui quest’ultima è dipendente, Italia in primis. I profitti derivanti dal business di queste società rappresentano il forziere che alimenta l’offensiva militare in corso in Ucraina.

Oltre ai numeri, quando si parla di ‘esposizione al business russo’ ci sono anche altri dati da tenere in considerazione: ‘uomini forti’ nelle posizioni chiave e curiose coincidenze. Tra queste, la mancata inclusione di Gazprombank tra le banche russe soggette a sanzioni economiche da parte dell’Unione Europea, attraverso l’esclusione dal sistema SWIFT. Intesa Sanpaolo e Gazprombank detengono il MIR, primo fondo di investimenti italo-russo. Inoltre, l’unico italiano nel board del sistema SWIFT è proprio di Intesa Sanpaolo: Banca Intesa Russia, per la precisione.

Negli stessi anni, la più importante banca italiana è riuscita a fare breccia nell’immaginario collettivo come banca sostenibile e al servizio dei territori. Niente di più distante dalla realtà: tra il 2020 e il 2021, Intesa Sanpaolo ha finanziato i settori del carbone, del petrolio e del gas con 9 miliardi di dollari. Di questi, 6,4 miliardi nel solo 2021: un incremento del 146% rispetto all’anno precedente.

Per quanto riguarda gli investimenti, al 1° gennaio 2022 ammontano a 4 miliardi di dollari: +50% rispetto all’anno precedente. È proprio per il suo mix di operazioni creditizie e di investimenti nel business fossile che Intesa Sanpaolo può essere definita la ‘banca nemica del clima’ n.1 in Italia.

In attesa di capire che cosa sarà degli interessi in Russia di Intesa, l’istituto di Corso Inghilterra risulta esposto anche negli Stati Uniti, a cui l’Italia ha scelto di legarsi a doppia mandata per buona parte della sua ‘nuova dipendenza’ dal gas.

Il gas che arriva in Europa dagli Stati Uniti è prodotto prevalentemente nel Permian Basin, attraverso l’utilizzo di pratiche ultra-invasive come il fracking o la trivellazione orizzontale. Si stima che, fra il 2020 e il 2050, la combustione di tutte le riserve di petrolio e gas del Permian Basin possa produrre l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2: una vera e propria ‘bomba climatica’.

Nel business dal gas made in USA, Intesa è già ben posizionata – in primis sul fronte dei terminal per l’export, pronta a saltare sul carro dei ‘vincitori fossili’ di questa guerra: tra il 2016 e il 2021 ha concesso infatti prestiti per 1,9 miliardi di dollari alle multinazionali maggiormente coinvolte nella produzione e trasporto di petrolio e gas del Permian Basin. Di questi, 830 milioni di dollari per progetti di gas naturale liquefatto (GNL) che arriva in Europa.

«Chiediamo che Intesa Sanpaolo implementi un piano di fuoriuscita da tutto il settore carbonifero, che smetta di finanziare progetti fossili nella Regione artica e che inizi a disinvestire da tutte quelle società che ora, mentre parliamo, stanno espandendo il proprio business fossile. Inoltre, chiediamo al gruppo di chiudere immediatamente ogni relazione con l’industria fossile russa», commentano Simone Ogno e Daniela Finamore di ReCommon, autori del rapporto. «Investitori, organizzazioni della società civile, movimenti per la giustizia ambientale e climatica sono in prima fila a denunciare gli sporchi affari del gruppo: ormai davvero in pochi credono al greenwashing di Intesa Sanpaolo, che continua a tingere di verde un business nero», concludono.