9 bambine dell’Amazzonia ecuadoriana hanno vinto la causa contro lo stato. Ma ancora nessuna azione reale è stata portata avanti, anzi. Si aprono altri giacimenti e nuovi mecheros sono in programma.

Di giorno e di notte, parte della foresta amazzonica ecuadoriana è illuminata da “torce” giganti, torri di fuoco alte metri. Sono i cosiddetti “mecheros” della morte, gli “accendini” delle stazioni petrolifere che bruciano enormi quantità di gas 24 ore su 24, da 55 anni.

Il primo mechero fu installato dalla multinazionale Chevron-Texaco quando inaugurò il pozzo petrolifero n°1 della regione, nel 1967. Da allora lo sfruttamento del territorio legato al petrolio non è che aumentato, e ora sono molte le aziende nazionali e transnazionali impegnate nell’estrazione del cosiddetto “oro nero”.

Oggi, sono almeno 447 i mecheros attivi; 232 nella provincia de Orellana e 210 a Sucumbíos, 2 nel Napo e 3 a Pastaza. Sono tra le zone più inquinate di tutta l’America, con uno dei tassi di tumore più alto del mondo. Nel febbraio 2020, nove bambine tra i 6 e i 14 anni hanno lanciato un’azione di richiesta di protezione costituzionale contro lo stato ecuadoriano, per chiedere l’eliminazione dei “mecheros della morte”, invocando la violazione del diritto alla salute, all’acqua, alla sovranità alimentare e alla vita in un ambiente sano ed equilibrato, sanciti nella costituzione ecuadoriana.

“I mecheros ci stanno uccidendo” dice Leonela Moncayo, 11 anni, una delle bambine promotrici della causa. Vive a poche decine di metri da una delle torri di fuoco, nella provincia di Sucumbíos. “Le ceneri espulse dai mecheros cadono nei fiumi, sulle piante, sulla terra su cui viviamo. Provocano pioggia acida. Uccidono gli animali, i fiori, e gli alberi non danno più frutti. L’acqua che raccogliamo per bere è contaminata, la terra non si può coltivare. Tutto é inquinato.”

I casi di tumore sono altissimi, soprattutto tra le donne. Ma nessun ente governativo effettua ricerche: é la UDAPT, la Unione delle vittime delle operazioni petroliere della Texaco, e la Clínica Ambiental, un’associazione che si occupa di tracciare i casi e fare informazione nelle comunità della regione. “Il 72% delle vittime dei tumori sono donne. La maggioranza è destinata a morire, dato che non esiste nemmeno una clinica oncologica nella regione e gli ospedali sono lontani e spesso a pagamento.

Inoltre, i malati ricevono solo una minima parte dei soldi che lo stato ecuadoriano gli dovrebbe erogare secondo la Legge” afferma Patricia Requelme, referente della UDAPT. Nella zona, si stima che i casi di tumore superino i 500 ogni 100.000 abitanti. Uno tra i tassi più alti del mondo. Oltre ai tumori, le malattie respiratorie e della pelle sono anch’esse molto, troppo numerose.

Denisse Núñez Samaniego, un’altra delle bambine che ha mosso causa allo stato, ha 14 anni. Vive nel nord dell’Amazzonia, nella provincia di Orellana. La sua breve vita, l’ha vissuta all’ombra dei mecheros: uno a 500 metri da casa, uno accanto alla sua scuola, uno al lavoro della madre. La mamma ha un tumore alla tiroide; due zii sono morti di tumore, così come una sua giovanissima compagna di classe. “E’ per il nostro futuro che lottiamo”. E di nuovo: “I mecheros ci stanno uccidendo”.

Il “caso Mecheros”

Nonostante l’evidente danno ambientale e alla salute provocato dai mecheros, la causa mossa dalle bambine fu inizialmente respinta dalla corte. Solo dopo il ricorso e mesi di attesa e manifestazioni pubbliche, la richiesta é stata accolta, nell’ottobre 2021. Tuttavia, la sentenza parla chiaro e mostra nitidamente di chi lo stato ecuadoriano cerca di proteggere gli interessi.

Si parla di “piano progressivo per l’eliminazione graduale dei mecheros” e pone delle date a lunghissimo termine per metterlo in atto. La sentenza emessa stabilisce un periodo di otto anni per l’eliminazione generale dei mecheros, ossia entro il 2030, e di 18 mesi per lo spegnimento di quelli “vicini” a un nucleo abitato. Peccato che non si specifichi né cosa si intenda per “vicino”, né per “nucleo abitato”. Una sentenza volutamente imprecisa e non chiara, per permettere alle multinazionali di giocare nelle zone d’ombra della legge.

I 18 mesi scadono ad aprile 2023. Per ora, accompagnati da una grande risonanza mediatica, alcuni mecheros sono stati spenti, e già – nel silenzio – le imprese si muovono per concordare con lo stato ecuadoriano l’apertura di nuovi giacimenti, e quindi di nuovi mecheros in tutta la regione. Inoltre, il monitoraggio della UDAPT ha rilevato un incremento dell’attività dei mecheros che si trovano nelle vicinanze di quelli spenti. Alla luce di ciò, il piano delle multinazionali petrolifere pare essere quello di far confluire il gas delle strutture eliminate in altre ancora in funzione; rimane quindi invariata la quantità di gas bruciato, così come le sue conseguenze, mentre sulla carta quest’ultime possono dimostrare di rimanere in linea con la sentenza e con la legge.

La UDAPT, basandosi su studi sulla salute e di impatto ambientale, chiede che vengano eliminati entro i 18 mesi tutti i mecheros nel raggio di 5 km dai nuclei abitati; così facendo, 430 mecheros dovrebbero essere spenti subito. I restanti, secondo la UDAPT, dovrebbero essere eliminati per tutelare gli animali ed i Diritti della Natura, esplicitamente sanciti dalla Costituzione ecuadoriana.

L’inquinamento dell’Amazzonia

Secondo i dati della Banca Mondiale, la combustione del gas naturale è uno delle cause maggiori del cambio climatico. Ogni anno, provoca le emissioni di più di 300 milioni di tonnellate di CO2 nell’atmosfera, molto più di tutto ciò che emette l’intero Ecuador ogni anno.

Un inquinamento gratuito, e immenso.

Di fatto l’industria petrolifera e lo stato ecuadoriano potrebbero sfruttare e utilizzare il gas, che esce mentre si aspira l’oro nero dalla terra. Con esso si potrebbe produrre elettricità, sostituendo i generatori a diesel utilizzati dalle imprese stesse, o – più semplicemente – supplire le importazioni di gas con quello prodotto e bruciato inutilmente 24/h al giorno.

L’Ecuador spende ogni anno più di 600 milioni di dollari in importazione di gas per il consumo interno. Si stima che con i mecheros se ne brucino circa quattro volte tanto. Tutto ciò con i soldi dei cittadini ecuadoriani. Infatti, il prezzo del gas é calmierato, finanziato dalle tasse pagate dai cittadini e attraverso l’aumento del debito pubblico. Se si usasse il gas estratto e bruciato, i vantaggi sarebbero enormi sia dal punto di vista economico che, soprattutto, ecologico. Sarebbe di grande aiuto per la riduzione delle emissioni di gas effetto serra, impegno tra l’altro preso dall’Ecuador proprio nell’ultima Assemblea generale per il clima, la COP26. La domanda sorge spontanea: perché non si fa? Molto probabilmente – nessun governo lo dichiarerebbe mai – si tratta di accordi interni tra stato e multinazionali del gas.

Business, ancora una volta. Che spinge a bruciare il gas per comprarlo importandolo dall’estero, per i benefici di grandi aziende straniere. “Il problema è che il profitto delle aziende petrolifere viene messo davanti alla salute delle persone, e alla vita della natura” dice Leonel Piaguaje, rappresentante della nazionalità Siekopai. “Qui per l’economia petrolifera si stanno estinguendo culture millenarie insieme ad una natura un tempo senza eguali. La biodiversità della regione amazzonica è unica e insostituibile, è il cuore verde del mondo. Le conseguenze dell’estrazione petrolifera sono incalcolabili, molto più impattanti qua che nel deserto di Dubai” Un sorriso triste. “Il problema è questa concezione di dominio dell’uomo sulla natura”.

Le conseguenze dell’estrazione petrolifera nell’Amazzonia ecuadoriana sono devastanti: tra i “derrames”, le fuoriuscite di petrolio legate alla scarsa o assente manutenzione delle tuberie e ai rischi costanti dei pozzi, e i mecheros, questo pezzo di terra sta diventando invivibile.

Molte delle comunità indigene della zona sono state costrette ad abbandonare la loro terra, mentre chi resta é colpito da malattie, e dall’indigenza legata alla distruzione del loro stile di vita.

Willian Lucitante è un altro dei leader della UDAPT, della nazionalità Cofán. “Il mio popolo al tempo dell’arrivo di Texaco negli anni ’60, contava più di 4.000 persone. Oggi, siamo circa 1200.” Conseguenze dello sfruttamento della natura e dell’inquinamento legato alle numerose aziende petrolifere che operano nel settore. “Molti sono morti. Molti sono stati costretti a cambiare vita. Noi Cofán vivevamo in armonia con la natura. Ma quando essa viene calpestata, le nostre terre sottratte, gli animali e le piante uccisi dal petrolio, moriamo anche noi”.

L’acqua è la base della vita, soprattutto per quelle comunità – come qui in Amazzonia – che sono strettamente legate alle fonti naturali. Non ci sono sistemi idrici statali, non esistono acquedotti pubblici.

Mariana Jiménez Avar, membra di una delle comunità di Lago Agrio, conferma: “Abbiamo sempre usato l’acqua del fiume per bere, cucinare, lavare i vestiti, pescare, per tutto. Ora, quell’acqua è contaminata dalle fuoriuscite di petrolio e dall’acqua di formazione che le imprese buttano direttamente nella natura. Allora, abbiamo iniziato a bere e usare l’acqua piovana. Ma anch’essa ormai è inquinata, per colpa dei mecheros.”

Molte sono state le manifestazioni in questi anni in opposizione alla costruzione dei nuovi giacimenti e contro l’espropriazione dei terreni concessi alle multinazionali petrolifere. La richiesta da parte degli abitanti e dei popoli indigeni è quella di vedere rispettati i propri diritti e la propria autodeterminazione culturale. Le compagnie petrolifere, al contrario, si sono sempre avvalse della complicità dello stato e delle sue forze militari e poliziesche per reprimere violentemente ogni opposizione.

Attraverso i tribunali hanno cercato di bloccare le proteste con accuse di sabotaggio e terrorismo, che implicano moltissimi anni di carcere. Molti i casi di minacce, corruzione, aggressioni fisiche fino ad arrivare ad omicidi mirati dei leader comunitari.

Le richieste delle comunità

Il collettivo che ha creato la campagna contro i mecheros chiede che non venga rilasciata nessuna autorizzazione e che i mecheros vengano spenti immediatamente. Chiedono che vengano rispettati i loro diritti, la loro autonomia, e la sentenza emessa dal Tribunale.

Il 24 marzo 2022 le organizzazioni facenti parte del collettivo “Apaguen los mecheros, encienden la vida” (“Spegnete i mecheros e accendete la vita”), insieme a centinaia di persone facenti parte delle comunità danneggiate che si trovano vicino ai pozzi e ai mecheros, e ai rappresentanti di molte nazionalità indigene, si sono trovati a Quito sotto il Ministero dell’energia e delle risorse non rinnovabili per protestare contro la devastazione dell’Amazzonia ed esigere che lo stato smetta di vendere i permessi alle imprese per mantenere accesi i mecheros. Pretendono che vengano rispettati i loro diritti, e la sentenza emessa dal tribunale che sancisce il completo spegnimento del sistema di combustione del gas associato.

Ci sono stati incontri istituzionali con la Assemblea Nazionale, con la Defensoría del Pueblo e con rappresentanti del Ministero, che hanno speso tante parole e promesse di maggior controllo sulle imprese, di analisi di impatto ambientale e sulla salute umana; in ogni caso fino ad oggi, nessuna azione concreta è ancora stata avviata dal governo, nè da nessun Ministero e/o ente amministrativo associato.

Gli abitanti della regione sono stanchi dopo 30 anni di lotte per la giustizia ambientale e per la loro stessa vita: promettono altre mobilitazioni, e cercano appoggio internazionale per far pressione sul governo affinché rispetti la legge della sua stessa costituzione.

E’ dagli anni ’60 che lo stato afferma che grazie al petrolio l’Ecuador sarebbe uscito dalla povertà. Invece, il debito pubblico è aumentato enormemente con l’estrazione petrolifera, senza contare i danni umani e ambientali. Gli indici di povertà si aggirano intorno al 32% a livello nazionale ecuadoriano, ma nella regione amazzonica (che detiene più del 90% di tutti i pozzi petroliferi dell’Ecuador), il tasso di povertà si aggira intorno al 60%. Il petrolio, in questa zona, non ha creato ricchezza, anzi: ha aumentato il livello di povertà, di indigenza e malattia.

Intanto, il presidente dell’Ecuador, Guillermo Lasso, ha annunciato la volontà di aprire nuovi giacimenti petroliferi nello Yasuní – patrimonio mondiale per la biodiversità nonché terra delle uniche comunità non contattate dell’Ecuador – nonostante in campagna elettorale aveva promesso la protezione dell’area.

La volontà del governo é infatti quella di raddoppiare l’estrazione di petrolio, passando da una media di

530.000 barili diari, fino ad un milione al giorno.

Il prezzo? Un costo naturale e umano incommensurabile.

Giulia Cillerai, Monica Cillerai, Francesco Maria Cricchio,  Comunicazione UDAPT