La guerra è il vero punto d’arrivo del capitalismo. La sua più compiuta realizzazione storica. Il momento in cui lo Stato e il mercato si fondono in una perfetta macchina di dominio, superando la narrazione retorica di uno Stato che si pretende “democratico”, e di un mercato che si pretende “libero”.

Per esemplificare il nostro discorso, ancora una volta ci tocca tornare al primo conflitto mondiale (madre di tutte le guerre della nostra era, e snodo fondamentale del capitalismo della contemporaneità). Fu allora che, col perdurare di una guerra senza fine, il controllo sociale e il governo delle cose fu demandato ad una struttura informale, ma fortemente centralizzata e dotata di poteri praticamente illimitati. Una sorta di centro direzionale onnicomprensivo, costituito dai politici membri dell’esecutivo, dai generali che guidavano la operazioni militari, e dai rappresentanti di una industria ormai totalmente votata allo sforzo bellico e ai suoi enormi profitti. Una specie di troica del dominio, frutto del matrimonio tra politica ed economia celebrato dalla guerra come mortifero sacerdote. Il capitalismo che si compie nella sua vera essenza di un processo senza fine, caratterizzato da alternanza e compenetrazione di produzione e distruzione. Produrre per distruggere e distruggere per potere continuare a produrre! L’organizzazione scientifica del lavoro e dello sfruttamento che sempre ritorna al peccato originario della brutale rapina e della morte.

La guerra, come massima espressione della eccezionalità e madre di tutte le emergenze, deve compattare i fronti e azzerare ogni differenza, che vada oltre quella semplicistica e duale di “amico” e “nemico”. La trincea, da condizione materiale della Grande Guerra, ne diviene il simbolo universale: “O con noi o contro di noi!”. In mezzo sta la terra di nessuno, e chi vi si colloca è un traditore! “Credere! Obbedire! Combattere!”. E chi in classe alza la mano per fare una domanda viene messo subito “faccia al muro”: Non conta cosa volevi chiedere. Semplicemente non si fanno domande.

La guerra dunque spinge verso un crescente autoritarismo, fino alla dittatura totalitaria. La propaganda col suo urlare incessante, deve zittire o rendere inudibile ogni voce di dissenso, prima ancora di doverla esplicitamente reprimere. L’anima di questo incessante megafono che condiziona le nostre vite, il suo contenuto (pseudo)valoriale è caratterizzato da una visione fortemente identitaria. Il “noi”, i nostri valori e la nostra storia, ci distinguono “dall’altro”, e sono implicitamente considerati superiori. L’identitarismo è  sclerotico e tradizionalista, perché deve per forza guardare al passato per escludere chi non viene da esso, e al tempo stesso deve ipostatizzare la nostra cultura e i suoi valori per evitare cambiamenti e contaminazioni. Deve insomma stare nel passato e negarsi ad ogni possibile futuro.

La propaganda di guerra, “congelando” il presente nel passato, diviene inevitabilmente classista, sessista, razzista e anti- ecologista. Serrare i ranghi del “fronte interno” e omologare ogni differenza dentro il dominio del pensiero unico, significa infatti delegittimare e avversare ogni possibile dinamica di trasformazione sociale, anche rispetto a quelle battaglie che in passato, e in condizioni di pace relativa o di belligeranza non radicale, sono state inglobate nell’ordine capitalistico, permettendone il suo stesso sviluppo.

Le lotte salariali, che in passato, entro il compromesso keynesiano, hanno permesso una parziale ridistribuzione del reddito, e che oggi rinascono nella lotta per il reddito di base, incondizionato e universale; Le lotte di liberazione della Donne e delle comunità LGBT, che faticosamente occupano nuovi spazi sociali; le lotte per l’integrazione razziale e per l’accoglienza dei migranti; La resistenza dei Palestinesi, dei Curdi, e di tutti i popoli oppressi; Le nuove, e sempre più significative, battaglie ecologiste. In sostanza ogni possibile conflitto, oltre che represso, deve essere preventivamente cancellato come contro-narrazione del presente. Deve divenire inessenziale e deve essere messo all’angolo, e dunque sconfitto (almeno nelle intenzioni) prima ancora di potersi esprimere. La comunicazione, nel dominio del capitalismo contemporaneo, è un’arma fondamentale, e questo i padroni del mondo lo sanno. 

Quando si ode il rumore delle armi, ogni discorso è cancellato da una sola parola: Guerra! E’ dovere di ogni partigiano del cambiamento fare in modo che ogni espressione dello scontro sociale riabbia voce. Anche noi possiamo sintetizzare questa nostra battaglia in una sola parola: Pace!