Durante un’intervista con la giornalista della CNA May Wong, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Myanmar Noeleen Heyzer ha affermato che “ogni trasformazione politica non può avvenire dall’oggi al domani” e che i giovani devono “negoziare con i militari una condivisione del potere a lungo termine”.

I suoi commenti hanno suscitato rabbia tra i birmani, costringendola a ritrattare le sue stesse parole solamente poche ore dopo.

Noeleen Hezyer ha ragione quando dice che le trasformazioni politiche non avvengono dall’oggi al domani. Ma non dovrebbero nemmeno richiedere sei decenni. Le persone in Myanmar vivono sotto il governo militare dal 1958, quando il primo dittatore, Ne Win, prese il potere con il suo “governo provvisorio”. Alcuni speravano (ma pochissimi ci credevano veramente) che la dittatura militare stesse volgendo al termine quando, 19 anni fa, il Primo Ministro Khin Nyunt annunciò il “percorso in 7 tappe verso la democrazia”.

Sono ormai passate molte notti da allora.

Nello Stato del Karen, la Karen National Union (KNU) ha appena celebrato la 73a Giornata della Rivoluzione Karen. 73 lunghi anni di Resistenza contro il Tatmadaw, le forze armate birmane. Negli stessi giorni, la Kachin Independence Organization (KIO) ha celebrato il 61° anniversario del Kachin Revolution Day.

Anche negli Stati di Arakan, Chin, Karenni e Shan hanno dovuto combattere per decenni contro l’esercito birmano. Per la maggior parte dei Bamar, il ricordo delle rivoluzioni del 1988 e del 2007 è ancora fresco. Di notti, ne sono passate a sufficienza.

Il popolo del Myanmar ha subito decenni di traumi causati da questo crudele regime militare, che in 70 anni ha ucciso centinaia di migliaia di persone e sfollato milioni di persone. Diverse generazioni hanno sofferto per mano dei generali. Sono passate tante notti da quando è stata tolta loro la libertà.

“Non bisognerebbe parlare alla leggera delle dittature, se non ne hai mai vissuta una”, mi disse l’anno scorso una buona amica.

Non si tratta di elezioni. Non si tratta di Daw Aung San Suu Kyi e non è una lotta di potere tra 2 partiti politici. Quello che è successo nel febbraio 2021 è solo un capitolo di una battaglia decennale tra il popolo e il Tatmadaw.

Tuttavia, è difficile dare un senso a ciò che è successo negli ultimi 12 mesi. I numeri sono sbalorditivi. Oltre 1.500 civili sono stati uccisi dai militari, compresi bambini e disabili. Quasi 12.000 persone sono state arrestate e spesso torturate. Migliaia di persone hanno perso la vita a causa dell’incapacità della giunta di gestire la pandemia di Covid. Si sono persi 1,6 milioni di posti di lavoro e l’economia si è ridotta del 18%. 406.000 civili sono stati sfollati internamente dal colpo di stato, mentre 32.000 sono fuggiti nei paesi vicini. Almeno 3 milioni di persone hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. Migliaia di bambini e giovani hanno perso un altro anno di istruzione. Migliaia di scontri armati sono stati segnalati in tutto il Paese, compresi attacchi aerei su obiettivi civili. Più di 3.000 case sono state bruciate dai soldati. Interi villaggi sono stati distrutti. L’ambiente naturale viene messo costantemente in pericolo per estrarre giada, oro, minerali rari, petrolio e gas. Questo è solo uno dei tanti anni sotto la dittatura militare.

Il 2021 è stato davvero l’anno peggiore per molti di noi, i nostri amici e familiari.

Ma questo è stato anche un anno di speranza. La speranza che non finisca come nel 1988 o nel 2007. Oggi le cose sono diverse. Non c’è mai stata una solidarietà così grande tra diverse etnie e diverse generazioni. Non c’è mai stata così tanta consapevolezza. Le persone sono riuscite a superare le loro differenze e a unirsi contro il regime militare. Certo, la strada da percorrere è ancora lunga e accidentata, ma i birmani sono disposti a percorrerla insieme.

Infine direi che quello che dovremmo ricordare oggi non è il colpo di stato, ma la sua fine e l’inizio di un nuovo Myanmar.

Alcune persone non riescono ancora a vederlo. Molti non credono che sia possibile, ma la gente del Myanmar sì.

Dopotutto, si chiama “Rivoluzione” per un motivo.

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