Della possibilità di un ritorno preoccupante dell’inflazione si parla ormai con insistenza, non solo tra esperti, ma anche nei mezzi di comunicazione di massa, stampa e televisione.

I motivi del rialzo dei prezzi sono molteplici. Il più evidente sta nell’incremento vertiginoso dei costi dell’energia che ha varie motivazioni. Innanzitutto le difficoltà di estrazione e approvvigionamento legate all’emergenza sanitaria. In secondo luogo i costi della transizione ecologica che porta ad un aumento dei prezzi dei permessi per emettere anidride carbonica, che l’Europa concede in maniera sempre minore e che le aziende si scambiano a prezzi sempre maggiori. (chi non ne ha bisogno cede la propria quota alle aziende più inquinanti). Più in generale va detto che è paradossalmente la stessa ripresa economica a spingere in alto i prezzi. Si da il caso infatti che nel momento della ripartenza produttiva,  le aziende si trovino prive del necessario stoccaggio di materie prime, aggravato da grosse difficoltà di approvvigionamento, legate alle criticità della circolazione globale a causa del Covid.  Problema quest’ultimo, particolarmente grave per la nostra economia che si basa sull’industria di trasformazione, e che potrebbe aggravarsi in considerazione del fatto che la pandemia è tutt’altro che superata e che anzi in questi ultimi giorni pare che in Europa i contagi tendano a risalire. A tutto questo vanno ovviamente aggiunte le manovre speculative, che come sempre avviene nelle situazioni di incertezza, fanno da moltiplicatore dell’inflazione.

Come si può vedere, ancora una volta ed esattamente come avvenuto negli anni settanta del secolo passato con la crisi petrolifera, l’inflazione è generata, almeno in partenza, dall’aumento dei “costi di produzione”, (ovviamente delle materie prime e non del lavoro). Ma esattamente come nella crisi degli anni settanta, per i politici e gli economisti  mainstream di scuola neoliberista, ciò che caratterizza sempre e comunque l’inflazione, anche a prescindere dalle sue cause contingenti, è l’eccesso di liquidità. Il che significa che l’unica possibile cura consiste nella riproposta di politiche fortemente recessive, con immediata sospensione  degli acquisti  di titoli e  contemporaneo aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali, e con contrazione della spesa pubblica e  forti attivi di bilancio da parte degli Stati. Inutile sottolineare quali effetti catastrofici simili scelte scellerate avrebbero per la ripresa economica e per la vita della gente. E senza neppure nessuna garanzia di arrestare una eventuale crescita dei prezzi, che come abbiamo visto ha tutt’altre motivazioni.

Per fortuna, al momento, la BCE,  come anche la FED, ha minimizzato dichiarando che l’inflazione ha carattere provvisorio, e ha deciso di continuare gli acquisti di titoli previsti nel programma del PEPP, almeno fino al marzo del 2022, e in ogni caso “finché non riterrà conclusa la fase critica legata al coronavirus”, con cifre “moderatamente inferiori” a quelle attuali che si aggirano intorno ai 70 miliardi annui. 

In ogni caso, e malgrado la scelta attendista da parte della BCE, su cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro non possiamo fare nessuna previsione. Ed è proprio questa la cosa più inquietante. Perché qui non si tratta della generica constatazione che il futuro è sempre imprevedibile, quanto piuttosto del fatto che le ferree regole europee di controllo e di ricatto nei confronti del debito pubblico dei paesi europei, sono state sospese nella situazione d’emergenza, ma non sono state mai abrogate, rimanendo come una spada di Damocle sulle nostre teste. Insomma siamo in una semplice situazione di tregua.

Cosa succederà quando il sostegno ai nostri conti pubblici realizzato attraverso gli acquisti del PEPP verrà meno? E quando sarà ripristinato il patto di stabilità con le sue assurde regole, che abbiamo visto all’opera e con i risultati che sappiamo durante la crisi greca? 

Sul patto di stabilità, per la verità, ci sarebbe una novità. Pare che gli economisti del MES vogliano proporre di abbassare il parametro debito/PIL dall’obiettivo del 60% da raggiungere in 20 anni, a quello più realistico del 100%. Una buona notizia? Niente affatto! Rendere (apparentemente) più realistica una regola assurda, la fa apparire  se possibile più inquietante, perché più facilmente applicabile. Almeno in teoria, perché si tratterebbe comunque di dover tagliare la spesa pubblica di decine e decine di miliardi.

Ricordiamo inoltre (di passaggio) che i 750 miliardi del Recovery Fund (una miseria rispetto ai 4000 miliardi di dollari in discussione per investimenti negli USA) sono  spalmati per più di cinque anni e sono vincolati alla realizzazione di riforme “lacrime e sangue”, su cui la commissione europea vigilerà con scadenza semestrale e col potere di bloccare i finanziamenti.

La cosa preoccupante è insomma  il fatto che, malgrado l’apparente “buonismo” della tregua in atto, non si vedono segnali di un reale cambio di atteggiamento da parte delle istituzioni europee, il cui mantra resta la logica del ricatto del debito come strumento di controllo sulle economie nazionali.

Su questo punto occorre fare ulteriormente chiarezza e porsi obiettivi ambiziosi e radicali. Sappiamo per altro che sono ormai innumerevoli le voci da parte di economisti, di tutte le parti del mondo e anche di diverso orientamento dottrinario, che pensano necessario partire dalla considerazione della inestinguibilità del debito pubblico, non solo nelle situazioni degli Stati più in difficoltà come l’Italia, ma anche rispetto alla dimensione globale del problema. (Ricordiamo che il rapporto debito pubblico PIL a livello mondiale è pari al 100% ed è in crescita. In pratica a 80 mila miliardi circa di dollari di PIL corrisponde una identica cifra del debito pubblico. Senza considerare il debito privato che dovrebbe ammontare a circa 200 mila miliardi di dollari). A questo punto appare chiaro a tutti, economisti e uomini della strada, che l’unica soluzione non può che essere quella della ricerca di forme di monetizzazione, “congelamento”, e se necessario cancellazione del debito.

Ma le autorità europee sono del tutto sorde a ipotesi di questo tipo. Basterà ricordare che, dietro esplicita richiesta di più di cento economisti, si sono rifiutati di cancellare i circa 1700 miliardi di debito pubblico europeo che sono in possesso della BCE come frutto delle politiche del quantitative easing, e che potevano essere azzerati senza danno per nessuno, e senza nessuna scusa di possibile inflazione perché titoli già in possesso della mano pubblica, e quindi non  da acquistare immettendo ulteriore liquidità sul mercato.

Ricordiamo qui di passaggio e a questo proposito, che circa il 22% del debito pubblico italiano, corrispondente a più di 500 miliardi, è nella disponibilità della Banca d’Italia. I sacrifici a cui cercheranno di costringerci nei prossimi anni, serviranno evidentemente anche per pagare debiti che lo Stato ha con se stesso, cioè con quella che dovrebbe essere “la sua banca”. Misteri (ma non tanto) della finanza.