Pubblichiamo la relazione  di Marilina Rachel Veca, coinvolta da Wilpf Italia in occasione di un evento di avvicinamento alla Pre COP26 sul tema Militarismo e contaminazione ambientale.

Marilina Rachel Veca è membro onorario dell’associazione Vittime Militari e Familiari delle Vittime, e membra dell’Associazione Nazionale Vittime Uranio Impoverito.

Questa è una storia complessa e misconosciuta che deve essere raccontata, una storia tessuta da tante persone che compongono e scompongono il loro dolore in un mosaico antico e doloroso, quotidiano e infinito; è una storia dove la terra è protagonista, la terra antica e madre, che ora improvvisamente sembra uccidere i suoi figli.

È un viaggio che incontra molte e differenti forme di resistenza al potere che schiaccia e annulla: un viaggio dentro le piccole storie di gente comune, non solo dentro le storie di militari e di missioni, noi parliamo di vita quotidiana, dell’agonia della terra, una terra che raffigura un paesaggio interiore, collettivo e individuale dove si svolge – inascoltata, sottovalutata, incompresa – una grande tragedia umana.

E questa tragedia è fatta di uomini, di terra e di volti; una tragedia che si svolge in paesi e territori che a un tratto si mettono a produrre morte, una morte atroce e silenziosa: l’istituzione militare dal volto benefico – quelle missioni chiamate “umanitarie” che si traducono in occupazioni armate, quei poligoni che “offrono” lavoro a tanti giovani – nasconde la sua maschera venefica e stende la sua ombra sul territorio come una sorta di Fortezza Bastiani inamovibile, impenetrabile nel coprire ipocrisie e menzogne, nel proteggere – costi quel che costi – la propria inviolabilità, senza curarsi di quelli che si ammalano e muoiono.

Le missioni “umanitarie” che dovrebbero portare pace e portano solo distruzione e nuovi, proficui per alcuni, assetti economici, i poligoni che producono morte, quei poligoni che dovevano portare ricchezza e sicurezza. In tanti sono coinvolti, in tanti tacciono: militari, veterinari, uomini d’affari, politici, strutture di sicurezza privata, industrie di armamenti legati dal grande business della produzione bellica.

Quanti misteri ruotano intorno ai Poligoni?

Nel Poligono di Quirra, il più grande della Nato in Europa, c’è l’uranio 238, l’assassino silenzioso artefice di questo crimine di guerra in tempo di pace: l’inquinamento bellico, che colpisce sia chi combatte sul campo di battaglia, sia chi vive vicino a quelle basi dove si sperimentano le armi e si fanno esplodere ordigni che ad alte temperature sprigionano questo materiale.

La terra non uccide, ma questa terra è stata espropriata e militarizzata ed ora ospita il 60% delle aree destinate al demanio militare italiano. E questa morte crudele colpisce chi in guerra non c’è mai andato e mai ha pensato di andarci: i pastori che pascolano le loro greggi vicino al Poligono, che hanno visto prima nascere agnelli malformati e poi che si sono ammalati e sono morti, così, in pochi mesi, senza sapere perché; il personale che lavora nella base e gli agnelli con sei zampe; i bambini nati con malformazioni (a Escalaplano, 2.500 persone, sono una decina) e i giovani malati di leucemia.

Al Poligono vengono in tanti a sperimentare, aziende di armamenti francesi, inglesi, americane che hanno bisogno di testare le loro nuove armi, pagano, sparano e vanno via.

La base militare promette cibo, carriera, soldi, sicurezza a chi si arruola. Ma così non è perché in quella base si sperimentano armi cosiddette non convenzionali, munizioni che impiegano uranio impoverito per aumentare la capacità di penetrazione, armi che portano contaminazione nel profondo della terra, nelle falde acquifere, per anni e anni e anni. Contaminazione e morte.

Il caso uranio impoverito è uno dei più atroci casi di omertà e di obnubilamento delle coscienze individuali. Omertà, indifferenza sociale, protezione ad oltranza dell’intangibilità delle istituzioni. Sul caso pesa l’oblio del tempo, i depistaggi, le tante inutili commissioni, le menzogne ufficiali e i numeri che non tornano, l’indifferenza di chi sa e continua a difendere l’Istituzione nella oscena retorica che avvolge “i nostri ragazzi che si sacrificano per la Patria”.

E’ la tragedia quotidiana e dimenticata di una terra che muore coi suoi frutti e i suoi animali, di volti che scompaiono, così nell’oblio.

C’è qualcuno che sa, anzi molti, che hanno la responsabilità di quello che accade ma tacciono, omertosi e criminali, riparati dietro il loro muro di gomma. E di nomi questa morte strisciante in realtà ne ha molti: leucemia fulminante, linfoma di Hodgkin, linfoma non Hodgkin, tumori di ogni tipo.

Questa è la regione più militarizzata del mondo: 7.200 ettari di terreno, 75.000 ettari di zone di restrizione dello spazio aereo e della navigazione. Qui la geografia disegna percorsi di morte in un territorio che abbraccia tutti i tipi di paesaggio, terra rocciosa, montagne granitiche, l’estensione trasparente del mare.

Poco tempo abbiamo appreso di un atto della giustizia che, senza retorica, possiamo definire storico: è stata pubblicata la sentenza definitiva della Corte d’Appello sul caso di un sottufficiale morto di cancro dopo la missione in Kosovo. È sancita “l’inequivoca certezza” del nesso di causalità tra esposizione alla sostanza tossica e la malattia; “è stato dimostrato che i vertici militari conoscevano i pericoli e non hanno fatto nulla per prevenirli”. Silenzi, omissioni e verità nascoste, una vera e propria cortina di omertà, di deresponsabilizzazione, di morte e sofferenza. Uno spiraglio di luce lo rivela la prima pronuncia della corte d’appello di Roma, definitiva dal 20 maggio 2019, una sentenza shock. La decisione della prima sezione civile della corte d’appello di Roma conferma, come già accertato dal tribunale, “in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale” e la colpevolezza del Ministero della Difesa. Sanziona inoltre, come già fatto dal giudice di primo grado, anche la condotta dei vertici delle Forze Armate per aver omesso di informare i soldati “circa lo specifico fattore di rischio connesso dell’esposizione all’uranio impoverito”.

L’utilizzo dei proiettili all’uranio impoverito (cosiddetti DU) “era stato confermato dal memorandum del Department of the Army – Office of Surgeon General” del 16 agosto 1993, “dalla Conferenza di Bagnoli del luglio 1995″, dalla “relazione della commissione d’inchiesta del Senato approvata in data 13 febbraio 2006″ e “dalla deposizione del dottor Armando Benedetti”, esperto qualificato in radio protezione del Cisam (il Centro interforze studi per le applicazioni militari) ascoltato proprio dalla commissione parlamentare in merito all’utilizzo del DU in Kosovo ed alla riscontrata presenza della sostanza nella catena alimentare. Tutti elementi dai quali «poteva evincersi che il ministero della Difesa fosse a conoscenza dell’esistenza dell’uranio impoverito durante la missione di pace o quanto meno sul serio rischio del suo utilizzo nell’area, nonché degli effetti del DU per la salute umana”. Insomma, secondo i giudici, sussistevano “tutti i requisiti per configurare una responsabilità del ministero della Difesa… per avere colposamente omesso di adottare tutte le opportune cautele atte a tutelare i propri militari dalle conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito”.

L’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, prima vice presidente del Consiglio (dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999) e poi ministro della Difesa (dal 22 dicembre 1999 all’11 giugno 2001) nei governi D’Alema e Amato, era intervenuto più volte sulla questione delle munizioni arricchite con uranio impoverito impiegate nella guerra dell’ex Jugoslavia dopo i primi casi di leucemia che avevano iniziato ad abbattersi sui reduci delle missioni nei Balcani”.

Il 27 settembre 2000, Mattarella rispose in Parlamento ad un’interrogazione relativa a due episodi di decessi verificatisi tra i militari italiani. “Nel primo caso il giovane, vittima della malattia, non era mai stato impiegato all’estero – spiegò l’allora ministro della Difesa – Nel secondo caso il giovane militare era stato impiegato in Bosnia, a Sarajevo precisamente, dove non vi è mai stato uso di uranio impoverito”. Circostanza poi rivelatasi non vera. Perché in Bosnia, zona di Sarajevo compresa, gli aerei americani scaricarono circa 11.000 proiettili all’uranio impoverito. E lo stesso Mattarella lo ammise, tre mesi dopo, il 21 dicembre 2000.

Il 10 gennaio 2001, Mattarella disse in Senato: “Per quanto riguarda il Kosovo, come è noto da allora, la Nato, nel maggio 1999, ha fatto sapere di aver utilizzato in quella regione munizionamento all’uranio impoverito… L’ingresso delle nostre truppe in Kosovo è avvenuto successivamente alla notizia pubblica – ripeto – dell’uso di munizioni all’uranio impoverito… Di conseguenza, fin dall’ingresso dei nostri militari in Kosovo si sono potute adottare misure di protezione adeguate”.

Ora la sentenza della Corte d’Appello di Roma passata in giudicato ci dice che il vertice militare ha “colposamente omesso” di adottare misure adeguate per tutelare i soldati.

E per finire c’è il balletto dei numeri: il Ministro della Salute Grillo nel governo Conte 1 ha dichiarato 400 morti e 7.500 malati, vittime di questa guerra subdola e non dichiarata.

E sui Poligoni dove si sperimentano armi all’uranio impoverito? Nemmeno una parola per quei morti di leucemia, di linfoma, per quei bambini malformati, per i pastori uccisi in pochi mesi da patologie fulminanti, nella loro terra espropriata, ferita, militarizzata, senza neanche sapere perché.

In quella che ancora era Jugoslavia, dal 24 marzo i bombardamenti della NATO si sono abbattuti violentemente per 78 giorni: li chiamavano “bombardamenti umanitari” ma di umano non c’era nulla. Le case sono state bruciate, distrutte, e quelle che non sono state colpite dalle “bombe umanitarie” sono state devastate, vandalizzate, “cannibalizzate”, dai terroristi albanesi dell’UCK.

Padre Sava, dal Monastero di Decani, ricordò così nel 2003 la giornata del 24 marzo 1999, che dette inizio alla guerra contro l’allora Jugoslavia: “La NATO lanciò massicci raids contro la Serbia senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e senza che venissero cercate tutte le possibili strade per una stabilizzazione pacifica della situazione da parte della comunità internazionale. Benché la NATO dichiarasse che gli attacchi aerei fossero diretti contro obiettivi militari Yugoslavi e contro il regime di Slobodan Milošević, migliaia di civili di tutte le etnie soffrirono e morirono e vennero definiti “danni collaterali”. “

Dopo oltre vent’anni, il Kosovo è un posto invivibile dove prosperano solo traffici illegali, la discriminazione etnica continua ed oltre 250.000 abitanti della Provincia (soprattutto Serbi) non hanno potuto fare ritorno alle loro case nonostante la presenza della NATO, delle Nazioni Unite, e ora di Eulex, nonostante le promesse della comunità internazionale. Inoltre circa 1.500 serbi sono scomparsi e con ogni probabilità oltre 300 serbi sono stati espiantati degli organi finiti nel mercato internazionale degli organi e degli esseri umani, con la totale impunità e noncuranza della cosiddetta comunità internazionale.

Centinaia di Chiese Serbo-Ortodosse sono state ridotte in cenere sotto gli occhi delle truppe internazionali di KFOR oltre a centinaia di oggetti artistici, di quadri, di affreschi; i cimiteri serbi sono stati devastati.

Belgrado, città-bersaglio per gli aerei Nato che, per settantotto giorni, hanno bombardato la Serbia, è ancora una città ferita.

Brucia ancora l’agonia del Kosovo e Metohija, la morte lenta della comunità serba, decisa a restare nella terra del popolo serbo, il Kosovo e Metohija.

I palazzi sventrati di Belgrado anche oggi ci ricordano l’altra faccia della guerra, la zona oscura trascurata dai media, la testimonianza di un incubo, la visione allucinata del presente.

L’aggressione alla Jugoslavia ha luogo, ufficialmente, dal 24 marzo al 10 giugno 1999 prendendo a pretesto dell’attacco NATO la cosiddetta Akcija Rachak, ove furono uccisi dalle forze regolari serbe circa 40 militanti appartenenti al terroristico e illegittimo Esercito albanese di liberazione del Kosovo, UCK. Alla guerra di aggressione contro la Jugoslavia condotta dalla NATO partecipò con i propri mezzi, aerei, uomini, basi, l’Italia insieme a Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Canada, Spagna, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Turchia, Paesi Bassi, Belgio.

Furono impiegati oltre 1.000 aerei da bombardamento e 30 navi da guerra; 2.032 veicoli armati e carri armati; circa 100.000 soldati, 15.000 volontari, 20.000 appartenenti a polizia e polizia penitenziaria.

I morti ufficialmenti sono stati 1.031 fra militari e poliziotti, 2.500 civili fra cui 89 bambini; circa 2.500 scomparsi perloppiù serbi; fra 200.000 e 300.00 serbi costretti a sfollare. 2 soldati Usa morti (non in combattimento) e 3 catturati.

I mezzi militari distrutti: 1 Apache AH-64 in combattimento e uno fuori combattimento (piloti americani Givvs e Reichert morti); 1 Fighting Falcon f-16 abbattuto; A 10 Thunderbolt 2 abbattuti e 2 danneggiati; 47 aeromobili a pilotaggio remoto (droni); 6 MIG 29 abbattuti; 1 Soko 22 Orao (JU) schiantato; 22 veicoli corazzati di cui 14 carri armati. La Nato ha affermato e poi smentito la cifra di 93 carri armati JU distrutti e 132 APC e 52 pezzi di artiglieria. Le basi aeree e aeroporti militari JU sono stati gravemente danneggiati, Batajnica, Ladevci, Slatina, Golubovci e Dakovia). L’Industria di difesa e struttre militari danneggiate: Utva, Zastava, Cacak, Kraguievac. Oltre a questo la raffineria di petrolio di Pancevo, di Novi Sad, più ponti, antenne, ferrovie, etc.

Secondo “Azione non violenta“ in una lettera pubblicata da Il Manifesto del 7/4/99 “un giorno di bombardamenti costa 225 miliardi, quanto il bilancio annuale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati“.

Secondo Newsweek „le prime tre settimane di guerra sono costate tra i 18 e i 27 milioni di dollari al giorno, cioè tra 378 e 567 milioni di dollari.“

Le distruzioni di beni immobili in JU ammontano a più di 100 mld; per la Banca Mondiale i costi economici a breve termini della guerra in Kosovo costituirebbero il 2.5% del PIL dell’area balcanica, intorno ai 100 miliardi di dollari.

I morti per contaminazione da uranio impoverito non sono quantificabili ma sono nell’ordine delle migliaia, sia fra i militari (anche italiani) che fra i civili.

In totale secondo la Commissione internazionale per le persone scomparse e la Commissione per le persone scomparse della Serbia, e secono il Kosovo Memory Book del 2015 e aggiornamento del 2019, possiamo dire che 13.548 persone sono rimaste uccise o disperse fra gennaio 1998 e dicembre 2000; di questi 10.317 erano civili.

La Nato per i bombardamenti sulla Jugoslavia fu accusata di genocidio, di terrorismo ambientale, di utilizzo di armi vietate in relazione con il massiccio sforzo bellico della Nato: 38 mila missioni aeree e circa 24 mila bombe, missili, proiettili sparati. Il Tribunale de L’Aja per crimini di guerra nei Balcani prosciolse tutti concludendo che “non c’è stata alcuna campagna volta a provocare direttamente o incidentalmente vittime civili”.

Eppure oltre al munizionamento ad uranio impoverito furono usate le bombe a frammentazione, micidiali bombe che esplodono liberando un raggio di schegge letali sono state spesso paragonate, per il modo indiscriminato in cui colpiscono le vittime, alle mine antiuomo.

Sappiamo da organizzazioni non governative operanti in Kosovo che nelle 113 località colpite nel 1999 dalle forze NATO con munizioni all’uranio impoverito i tumori maligni sono cresciuti del 200%, ovvero che il numero di malati è salito da un livello annuo del 1,9% al 5,2%, sappiamo che “in Serbia stiamo assistendo ad un significativo aumento dell’incidenza delle malattie maligne soprattutto nei giovani, mentre nei paesi dell’UE è in calo, con una grande percentuale di malati nella fascia d’età compresa tra i 5 e 9 anni, oltre a una maggiore predisposizione a contrarre nel tempo malattie tumorali maligne del sangue” cosi come dichiarato da Darko Laketić, presidente della Commissione di indagine sulle conseguenze del bombardamento NATO del 1999 sui cittadini serbi.

I NUMERI DELLA GUERRA NATO CONTRO LA JUGOSLAVIA

1 fabbrica chimica colpita a Galenica dalle bombe “intelligenti”

1 elicottero NATO abbattuto secondo l’agenzia ufficiale di stampa jugoslava ‘Tanjug”

1 ospedale ortopedico distrutto vicino ad una caserma dell’esercito jugoslavo, alla periferia di Belgrado

1 treno colpito durante il bombardamento di un ponte il 12 aprile a Grdelica, Serbia

2 centri per profughi colpiti da bombe NATO

2 ponti distrutti dai bombardamenti a Novi Sad

2 elicotteri Apache aggiunti al contingente attuale

2 AMX italiani decollati dalla base di Istrana, Veneto, bombardano Belgrado il 14 aprile

3 missili lanciati a meno di 500 metri dall’antico monastero ortodosso di Gracanica

3 i prigionieri di guerra americani catturati dai serbi (negati dagli americani)

3 le bombe NATO cadute su Aleksinac, Serbia, secondo l’agenzia di stampa Tanjug

3 caccia Nato abbattuti secondo Belgrado

4 AMX italiani decollati dalla base di Istrana, Veneto, il 15 aprile

5 missili Tomahawk hanno colpito la fabbrica automobilistica Crvena Zastava

5 i bombardamenti della fabbrica Sloboda (Cacak, 145 chilometri a sud di Belgrado), che secondo le autorità jugoslave produce elettrodomestici e secondo la Nato munizioni

6 le ore di televisione quotidiane che la NATO chiede di avere a disposizione dal Governo serbo

6 missili hanno centrato un deposito di combustibile e una fabbrica di plastica (Pristina)

7 missili da crociera caduti su Pristina

7 navi da guerra russe che hanno notificato il passaggio alla Turchia dello stretto del Bosforo e arrivare in Adriatico

8 bombardieri B52 di stanza in Inghilterra usati fin dal primo giorno

9 ponti serbi distrutti dalla NATO al 15 aprile, fonte serba

12 morti con l’abbattimento dell’elicottero NATO secondo l’agenzia ufficiale di stampa jugoslava ‘Tanjug’ (negati dagli americani)

12 i morti civili causati da un missile NATO caduto su alcuni edifici di Aleksinac, Serbia

13 raffinerie o depositi di carburante distrutti dalla NATO al 15 aprile 99

17 civili sono rimasti feriti per il bombardamento compiuto la notte scorsa dalla Nato sul complesso petrolchimico di Pancevo, sobborgo di Belgrado

18 postazioni missilistiche inviate in Albania

18 le esplosioni avvertite a Pristina nella notte tra il 6 e il 7 aprile

20 i km. di lunghezza della chiazza di petrolio che che sta scendendo lungo il Danubio, dovuta al bombardamento di una raffineria

23 i battaglioni serbi nel Kosovo secondo la NATO al 14 aprile 99

24 F-16 americani

31 fabbriche serbe distrutte dalla NATO al 15 aprile 99

50 Mig 29 : arsenale aeronautico serbo

60 aerei sulla “Enterprise”

75 profughi albanesi del Kosovo morti in seguito a un bombardamento NATO il 14 aprile 99 secondo i serbi

119 gli autobus utilizzati per il trasporto degli albanesi nei campi della Nato di Stenkovac e Radusa

124 operai feriti durante il bombardamento NATO della fabbrica Zastava a Belgrado

138 persone arrestate a Mosca davanti all’ambasciata americana dopo scontri con la polizia

168 albanesi sbarcati in Puglia nella notte tra il 6 e il 7 aprile

400 missioni NATO nella notte tra l’8 e il 9 aprile 99

500 morti civili secondo Belgrado al 15 aprile 99

1.500 missili NATO secondo Belgrado al 15 aprile 99

2.165 i missili a disposizione di Marina e Aviazione NATO

4.000 feriti civili secondo Belgrado al 15 aprile 99

5.000 tonnellate di esplosivi usati dalla NATO al 15 aprile 99

5.000 unità d’attacco di terra richieste dal comando USA

5.000 uomini di equipaggio sulla portaerei “Enterprise”

7.300 gli uomini del contingente di Allied Harbour in Albania

25.310 albanesi trasferiti nei campi della Nato di Stenkovac e Radusa, a nord di Skopje

60.000 i soldati che la NATO ha impiegato a terra per consentire la creazione di una “zona franca” in Kosovo in cui far rientrare i profughi, secondo il Financial Times

400.000 albanesi che, anche su sollecitazione delle forze NATO, hanno lasciato il Kosovo dal 24 marzo. Dopo il 9 giugno 1999 ne sono rientrati almeno il doppio.

2.000.000 gli abitanti del Kosovo nel 1998

2.500.000 volantini lanciati sul Kosovo dagli aerei NATO esortando militari e paramilitari serbi a rientrare in caserma.

Balcani, ma anche ovviamente Iraq, Somalia, Afghanistan: sono i territori in cui migliaia di civili e militari sono stati inconsapevolmente esposti all’uranio impoverito ed alle nano particelle di metalli pesanti rilasciate all’impatto da questo terribile munizionamento; sono i territori dove centinaia, migliaia di storie di malattia e morte si sono ripetute negli ultimi venticinque anni, simili, dolorose e drammaticamente sconosciute all’opinione pubblica.

Da fonti governative irachene, che in alcune città bombardate durante le guerre del Golfo come Baghdad, Bassora e Fallujah è stata segnalata un incidenza di malattie legate all’esposizione particolarmente elevata: il tasso di tumori nella provincia di Babil a sud di Baghdad, è aumentato da 500 casi diagnosticati nel 2004, a 9082 nel 2009. A Fallujah i tassi di difetti congeniti hanno raggiunto livelli fino a 14 volte superiori a quelli di Hiroshima e Nagasaki.

Sappiamo infine dall’ Osservatorio Militare che oltre 7500 militari e civili Italiani si sono ammalati di tumore e, di questi, 400 sono deceduti per le conseguenze di queste malattie contratte a causa dell’esposizione all’uranio impoverito nei teatri operativi e nei poligoni nazionali.

E se i civili vittime degli effetti dell’uranio impoverito sono stati scandalosamente archiviati dalla NATO come “effetti collaterali” dei bombardamenti, per quanto riguarda i militari, soprattutto quelli italiani impiegati nelle cosiddette missioni di “peace keeping”, la situazione appare ancora più complessa ed al limite del surreale.

Quattro le commissioni di inchiesta istituite negli anni dal Parlamento italiano tra cui l’ultima, presieduta dall’On. Gian Piero Scanu, nelle sue conclusioni ha rivelato dopo i lavori durati 2 anni la scoperta di “sconvolgenti criticità che in Italia e nelle missioni all’estero hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i lavoratori militari del nostro Paese. Desta allarme la situazione dei teatri operativi all’estero: è stata constatata l’esposizione a inquinanti ambientali in più casi nemmeno monitorati. Singolare è, inoltre, la scarsa conoscenza, ammessa dagli stessi vertici militari, circa l’uso in tali contesti di armamenti pericolosi eventualmente impiegati da Paesi alleati”. Ad ogni modo, pur avendo piena valenza istituzionale, le conclusioni della IV commissione di inchiesta sono state ignorate nonostante le affermazioni ormai inconfutabili.

Ci auguriamo ora che questo atroce caso di lacerazione del tessuto sociale, che questa ferita del senso stesso di appartenenza all’umanità, possa diventare memoria e narrazione che costruisce giustizia e finalmente verità per questa gente ignorata, uccisa, presa in giro da quelle stesse istituzioni che li definiscono “i nostri ragazzi”. Gli “autorevoli personaggi” rappresentanti delle istituzioni, esperti, ematologi, politici, militari, sono sempre gli stessi e continuano a chiudersi a riccio nella loro autodifesa, uomini e donne fermi nelle loro facce di pietra, occupati solo a nascondere la verità e a fare muro, celati come ombre oscure dietro la selva dei “non so”, “non ricordo”, “non c’è rapporto causa-effetto”, “non è il caso di parlarne”.

Noi continueremo a parlarne, a scriverne, a gridare l’orrore per tutti gli innumerevoli innocenti ai quali è stata rubata la dignità, il diritto alla conoscenza e alla vita, per tutti quelli che non possono più gridare, noi gridiamo per loro.

Questa democrazia che viene “seminata” con le bombe non è quella che vogliamo.

Marilina Rachel Veca