Conosco Andrea Ferraris da 15 anni, i nostri figli andavano insieme alla scuola materna italiana di Barcellona. Dopo la scuola andavamo ai giardinetti e lì mi raccontava del suo lavoro, delle sue fatiche, dei suoi sogni. Ricordo una sua “immagine”, quando, da buon disegnatore, mi diceva che in certi periodi doveva “imbullonarsi alla sedia”: ogni tanto lo ripeto a me, quando devo trascrivere queste interviste.

Ho seguito le sue pubblicazioni, i suoi successi. Nel frattempo, quando ce n’era bisogno, ci faceva un disegno per la Palestina o come quando, con Pressenza, facemmo il presidio con gli aquiloni sotto il consolato egiziano. Ora vive a Torino.

Raccontaci la tua storia

Sono di Genova, dove feci studi artistici. Lavorai con Emanuele Luzzati al teatro della Tosse, quindi frequentai una scuola di fumetto a Bologna. Lì conobbi diversi fumettisti e in un paio di occasioni incontrai anche Andrea Pazienza, l’anno prima della sua morte. Provai a fare i miei primi fumetti, senza pubblicare da nessuna parte naturalmente, ma grazie ai numerosi contatti avuti, esposi a Treviso Comics e conobbi uno dei principali disegnatori della Disney, che mi propose di lavorare con loro. Mi presentai a Milano, alla Disney, dove conobbi Giovanni Battista Carpi (che era di Genova). Con lui feci un anno di “scuola”. Dal 1992 cominciai a collaborare con loro, e non ho mai smesso. E’ ciò che ci dà da vivere.

Ricordo che la prima storia che mi assegnarono fu “Topolino e il quarto Beatles”: dovevo disegnare, oltre ai personaggi Disney, le caricature dei Beatles: ci misi 6 mesi a farla. Abbiamo vissuto a Barcellona, a Cagliari, ora a Torino. Disegno ancora per Disney, con un editore danese, su 4 strisce invece che su 3. Dal 2007 circa ho cominciato però anche a scrivere e disegnare delle mie storie, e questa è stata un’avventura, spesso in salita, ma entusiasmante e gratificante.

Quale fu il tuo primo libro?

La storia di Bottecchia, ciclista degli anni ’20, primo italiano a vincere il Tour de France. Insieme alla storia sportiva c’era quella politica: Ottavio Bottecchia, persona umile, figlio di contadini, analfabeta, quando cominciò ad avere i primi successi venne ingaggiato da una squadra ciclistica francese tenuta dai tre fratelli Pellisier, di idee radicali di sinistra, vicini agli anarchici; insegnarono a Bottecchia non solo a pedalare, ma anche a leggere e scrivere, testi libertari… In quegli anni in Italia montava il fascismo, Bottecchia vinceva e il fascismo cercava di farne un suo eroe. Bottecchia più di una volta si ritrasse da questo “abbraccio”. La sua morte improvvisa rimane in circostanze dubbie e misteriose, probabilmente fu una squadretta fascista alla quale scappò la mano… Il libro finì esaurito ed è difficile trovarlo.

Il secondo libro, “Churubusco”, narra la storia del Battaglione San Patrizio: 1846, guerra tra USA e Mexico, un folto gruppo di immigrati irlandesi fa parte di questo battaglione. Gli Usa invadono il Messico e questo battaglione, sentendosi più vicino ai loro nemici, diserta in blocco e “passa” con i messicani, pur sapendo di andare incontro ad un massacro. Nelle mie ricerche scopro che in quel battaglione c’erano altri immigrati europei, soprattutto cattolici, e anche tre italiani, Da lì prendo lo spunto per raccontare la vicenda dal punto di vista di questo immigrato che ho immaginato siciliano. Scoprii in seguito, con mia grande emozione, che un siciliano, di Messina, c’era davvero ed era finito impiccato a 22 anni. In quel tempo parlai un paio di volte con il vivace sindaco di Messina, Accorinti, che fu molto orgoglioso di sapere di questa storia. Questo libro mi mise in contatto con l’ambasciatore del Messico in Irlanda, dove mi invitarono. Lo stesso ambasciatore si spostò a Los Angeles e grazie a questo contatto facemmo lì una mostra con i disegni originali di Churubusco.

Colsi l’occasione dell’invito a Los Angeles per realizzare un viaggio sul confine Usa-Messico, lungo il MURO. Con un amico documentarista, Renato Chiocca, raggiungemmo Nogales, una cittadina divisa in due dal muro. Un amico fumettista messicano ci invitò a conoscere quella realtà, dove passammo alcuni giorni condividendo le riunioni e le azioni di gruppi di statunitensi, soprattutto donne e religiose, che aiutano coloro che riescono ad attraversare il confine, spostandosi spesso lungo il deserto. Le loro azioni consistono nel lasciare da bere e da mangiare (in bidoni protetti) lungo dei possibili percorsi, che vengono regolarmente battuti. Abbiamo seguito anche il lavoro dell’associazione “No mas muertos” che aveva un presidio, fatto soprattutto di tende, nei pressi di uno dei punti di passaggio ma che in quel momento era stato chiuso (con tanto di parata militare ed elicotteri) dall’amministrazione Trump.

In quel giro che facemmo nel deserto con delle jeep, si vedevano i resti del passaggio di gente, un paesaggio che sarebbe bellissimo, ma che posso solo immaginare come possa essere vissuto da chi lo attraversa rischiando la vita e passando da 40 gradi di giorno a un gran freddo di notte. Conobbi anche il lavoro di un personaggio particolare, un ex militare di origine colombiana che vive a Tucson da molto tempo, il quale da diversi anni svolge un lavoro politico-artistico, lasciando una croce colorata (una diversa dall’altra, senza che questa abbia un significato religioso) come base per un GPS: lui le posiziona e le lascia laddove vengono ritrovati dei corpi senza vita. Di conseguenza la zona è disseminata da puntini rossi, laddove sono morti degli immigrati che cercavano una vita migliore. È sconvolgente vedere la quantità di morti in quel piccolo pezzo di terra di confine.

Da questo viaggio ho realizzato un altro fumetto, disegnato velocemente in quegli stessi giorni, “La cicatrice”: è la storia vera di un giovane ragazzo di Nogales che, tornando a casa la sera, viene colpito dai proiettili “vaganti” di una guardia Usa che sparava verso due giovani messicani mentre cercavano di passare il muro per portare della droga negli Usa. Il processo, che durava da diversi anni, si stava concludendo in quei giorni, quando eravamo lì noi. Si è chiuso da poco con l’assoluzione della guardia di confine, border patrol. Sono tante le morti che avvengono per i colpi sparati dagli Usa verso il Messico.

È impressionante, arrivando da Tucson, nel deserto, vedere questo muro, questa linea rossiccia di metallo, fatto con lamine di metallo ricavate dalla fusione di vecchi armamenti e carri armati. È pazzesco, tocchi davvero la divisione tra Nord e Sud del mondo.

Ti è mai venuto in mente di andare a vedere quello che succede a Ventimiglia o in Val di Susa o verso Trieste, luoghi in questo momento assimilabili a quelli che tu ci hai appena descritto?

Si, sono in contatto con gruppi e associazioni di Ventimiglia e di Torino, in particolare con “Carovane migranti”. Sto collaborando a un progetto molto interessante, per loro ho fatto un disegno. Stiamo aiutando a raccogliere fondi per Mario Vergara, un uomo dello stato di Guerrero, Messico, che da anni sta cercando di scoprire dove sia finito, verosimilmente, il cadavere di suo fratello. Quest’uomo sta dedicando la sua vita alla ricerca del fratello ed è diventato in Messico il simbolo di tutti coloro che cercano persone care desaparecide (come i 43 studenti di Ayotzinapa) e ritrovano numerose fosse comuni. Parallelamente aiutiamo delle donne del Maghreb che cercano i loro figli spariti nel mare o chissà dove. Tutto questo per dirti che questi libri hanno messo ogni volta in moto incontri, progetti.

Poi ci sono gli ultimi due fumetti

Si: “La lingua del diavolo”, dove racconto dell’isola Ferdinandea, in Sicilia, una piccola isola che emerge nel 1831 in seguito ad un’eruzione vulcanica di fronte a Sciacca, paese di mio nonno. È poco più che uno scoglio, ma la contesa diventa nel giro di poco tempo durissima, tra gli inglesi che mettono la bandiera, i francesi che la ritengono loro (arrivandovi con una spedizione scientifica ed un pittore!), i Borboni e un pescatore di Sciacca che dice di esservi arrivato per primo. La cosa curiosa è che dopo 6 mesi lo scoglio si reimmerse nel mare. Nel 2000 in seguito ad un articolo del Times la disputa si riaccende e partono nuove spedizioni a mettere bandiere o targhe sott’acqua. Questa storia mi sembrava davvero esemplare del desiderio di possesso umano, che va addirittura a cercare di possedere qualcosa che neppure esiste.

Per arrivare all’ultimo che è uscito pochi mesi fa, “Una zanzara nell’orecchio”, che racconta la storia dell’adozione di nostra figlia Sarvarì. Descrivo la mia vita prima, a Genova, prima di pensare di diventare padre… Tutte le pratiche dell’adozione, le attese, il viaggio in India, le emozioni, le crisi, le paure, le gioie, tutto. L’incontro. Mi interessava raccontare la nascita di questa strana famiglia, quel momento iniziale, la genesi. Fino al giorno in cui, una volta a Genova, dopo pochi mesi, simbolicamente, Sarvarì, a una donna che le chiedeva se fosse sola, rispose che No, era lì con mamma e papà… In quel momento capimmo che ce l’avevamo fatta.

Come è nata l’idea di raccontare la vostra storia? È ben diversa dalle altre…

Ce l’avevamo nel cassetto da tanto, ma Sarvarì non voleva che si raccontasse questa storia. È stata lei che ci ha detto un giorno: “Ma questo libro che racconta la mia adozione lo facciamo o non lo facciamo?” Così lo abbiamo fatto. A me è servito tantissimo per capire che per me quella è stata la mia linea d’ombra, il mio passaggio ad un’età adulta, con le sue responsabilità. Anche a Sarvarì è servito per riempire dei “buchi” che aveva nel nostro passato e si è divertita moltissimo nel vedere chi eravamo prima che lei arrivasse. E ora va pure orgogliosa di questa storia.

Ricordo quando ci conoscemmo 15 anni fa, come fosse una lotta, una fatica, trovare un editore che pubblicasse una storia.

Si, non è stato facile, per parecchio tempo, ma adesso sono molto più conosciuto, soprattutto nel mercato francese dove le graphic novel sono più diffuse. Devo comunque continuare a dividere la mia vita tra la “pagnotta” che mi dà Disney, e il piacere e la soddisfazione di pubblicare le mie opere. Diciamo che non ho ancora smesso di imbullonarmi alla sedia: lavorare 6-7 ore per “lavoro” e poi avere forza ed entusiasmo per mettersi ai propri progetti è faticoso. Ho due progetti in mente, ma per questo aspetto ad iniziarli, perché poi so che il periodo che seguirà sarà davvero duro… Ma ce la faremo anche stavolta.