L’abolizione dell’ergastolo in Italia è una lunga disputa che si trascina ormai da moltissimi anni, ma nulla di concreto viene fatto per eliminarlo. Ritengo l’ergastolo – e non perché ne sia direttamente coinvolto – una pena disumana: una condanna, oltretutto, che palesemente non promuove il recupero e la trasformazione del condannato. L’articolo 27 della Costituzione recita: “La pena deve tendere sempre alla rieducazione del condannato”. Per cui è la stessa Costituzione che mette in discussione la conformità della pena dell’ergastolo riconoscendone la disumanità. L’abrogazione dell’ergastolo sarebbe il primo passo verso un traguardo di civiltà, la qual cosa consentirebbe finalmente la piena
rispondenza del diritto penale alla finalità rieducativa della pena. Se noi, e chi amministra la giustizia, intendiamo il processo penale come il motore delle istituzioni, essa deve mostrare, a mio parere, ancora di più il suo volto umano.

Ecco la tredicesima testimonianza di un ergastolano:

Chi è l’ergastolano: un soggetto alienato privato di tutti i suoi diritti, lesi giorno dopo giorno finché morte sopraggiungerà. Non ha diritto all’amore, alla procreazione, il diritto di esistere, la sua fedele compagna è l’attesa della morte come certezza. Lo stato Italiano da tantissimo è diventato il paladino dei diritti fondamentali delle persone in tutto il pianeta, si batte per l’abolizione della pena di morte ma l’applica ai suoi sudditi “con l’ergastolo”, una morte lenta e silenziosa, l’Italia patria del diritto, dovrebbe andare a lezione di diritto dai paesi europei più evoluti. Ormai il nostro paese è rimasto ancorato al medioevo, allora vigeva la pena di morte, adesso è più letale e dolorosa di prima con l’ergastolo.

L’ergastolo resta una pena incostituzionale sotto tutti i suoi aspetti. L’idea dei costituzionalisti di sostituire la pena di morte con l’ergastolo, è servita a rassicurare la società: tanto non uscirà vivo dal carcere. Come potrei chiamare l’ergastolo usando un eufemismo o una metafora? Ne ho sentite tante… la morte bianca, i sepolti vivi, i morti che parlano o meglio 31 e 47 (morto che parla), usando la smorfia napoletana. È provato scientificamente da eminenti luminari delle psichiatrie e della psicologia che dopo 10 o 15 anni di carcere (non ricordo bene gli anni esatti) il detenuto mentalmente ha problemi a vivere per tantissimi anni in un contesto limitato di spazio e di rapporti interpersonali, si diventa come automi. Quale sarebbe la giusta pena per un ergastolano? Penso che l’Italia dovrebbe informarsi ai massimi edittali dei paesi europei più evoluti: Spagna 24 anni, Germania 22 anni, Svezia, Norvegiae Danimarca 18 anni. In questo modo il detenuto, avendo un fine pena, acquista fiducia in se stesso e nel mondo intero, prende consapevolezza che la speranza non è morta, la vita fuori lo aspetta, ma se lo stato uccide anche questo il recluso muore con essa.

Io ho lasciato le mie tre figlie che erano meno che adolescenti, la più piccola appena 6 anni. Le ho viste crescere da lontano, si sono laureate con tutti i sacrifici di questo mondo, sacrifici anche per fare i colloqui: quasi 800 km il tragitto totale per venirmi a trovare. Il mio cuore era sempre agitato il giorno del colloquio, per la gioia, nonostante il muro divisorio. Da qualche anno il muro è stato tolto, è stata una sorta di liberazione, adesso posso stringere e baciare tutti i momenti figlie e nipotini. Vi sono state iniziative da parte dei detenuti per avere condizioni di vita decenti nel carcere, ma sono naufragate sul nascere: il recluso non può prendere mai alcuna decisione, tutto gli viene imposto, si è privati di ogni iniziativa. Deve fare unicamente quello che gli viene imposto, vige la sottomissione come regola e in quest’etica il carcere può diventare una scuola di potenziali irresponsabili.