Da oltre due anni un giornalista australiano languisce in una prigione di massima sicurezza a Londra, nel Regno Unito.

La sua colpa è quella di aver permesso a informatori anonimi di tutto il mondo di svelarci i crimini e le nefandezze commessi da organizzazioni governative e non, corpi militari, interi Stati; in poche parole, quella di averci svelato il vero volto del potere.

Ma ciò che proprio non avrebbe mai dovuto permettersi di fare è stato fornire ai maggiori organi d’informazione mondiali documenti classificati, che attestano i crimini commessi dal Governo degli Stati Uniti nelle guerre che ha condotto in Afghanistan e Iraq, coi suoi fedeli Alleati.

Risultato: i crimini commessi sono rimasti impuniti, chi li ha svelati da oltre 11 anni è privato della sua libertà e rischia fino a 175 anni di carcere.

Ed è così che Julian Assange, reo di aver fatto il suo mestiere divulgando notizie di pubblico interesse, il 3 luglio ha trascorso anche il suo 50° compleanno in prigione, lontano dalla sua compagna e dai suoi figli, con una salute ormai gravemente deteriorata, sia sul piano fisico che su quello mentale.

La salute mentale è stata oltretutto causa apparente di preoccupazione anche della giudice Vanessa Baraitser, la quale ha ammesso lo scorso 4 gennaio che l’imputato sarebbe a forte rischio suicidio negli USA e per questo non ne permetteva l’estradizione. Peccato ignorare il fatto che il rischio per la sua incolumità è stato ed è più che mai reale anche durante la sua detenzione a Belmarsh, in UK, come attestato dai medici che hanno testimoniato nel processo, nonché dai medici esperti in tortura e trattamenti inumani o degradanti che hanno relazionato per l’ONU e da centinaia di altri medici che hanno letto queste relazioni e hanno inviato una lettera aperta a vari rappresentanti governativi dei paesi implicati nel caso Assange per chiedere il suo rilascio immediato[i].

Ma nulla: Julian Assange resta recluso a tempo indefinito e in regime di isolamento in quella che viene definita la “Guantanamo europea”, mentre il Governo di Whashington prende tutto il suo tempo per preparare l’appello, per il quale non è dato sapere quando verrà dibattuto.

Tutto questo mentre un testimone chiave dell’accusa ha ammesso pochi giorni fa in una lunga intervista di aver fabbricato tutte le prove contro Julian Assange in cambio dell’immunità per imputazioni legate alla sua sociopatia, concessagli dal Dipartimento di Giustizia Americano per la sua collaborazione. Edward Snowden twitta che questa dovrebbe essere la fine della persecuzione del giornalista australiano [ii].

Noi vogliamo crederci.

Se non altro poiché trovarsi in prigione per aver svelato al mondo la verità, sembrerebbe qualcosa di così palesemente ingiusto, da non parere vero.

Purtroppo però, come scriveva sapientemente George Orwell nel secolo scorso: “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Proprio come nel libro che ispirò questa celebre frase, oggi potremmo dire che “tutti i popoli sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”.

Per questa ragione nelle “democrazie” occidentali è bene parlare dei Navalny e degli Zaki[iii], ma guai a parlare dei Peltier, degli Snowden e degli Assange, appunto.

Quando se ne parla poi, bisogna fare in modo di denigrare, quando non disumanizzare o addirittura criminalizzare la vittima della persecuzione, distorcendo completamente la realtà dei fatti, facendo in modo che la gente che non suole porsi troppe domande pensi che in fondo Julian Assange si meriti di stare dov’è, o quantomeno, nella migliore delle ipotesi, la si porti a pensare che quest’uomo ha fatto tutto questo per essere al centro dell’attenzione.

Viviamo appunto nell’epoca dell’inganno universale, dove i media mainstream ci dicono cosa pensare e per la maggioranza delle persone, così facendo “andrà tutto bene”.

Ma state pur certi: se non pretendiamo che i veri criminali siano assicurati alla giustizia e le persone come Julian Assange vengano liberate, non va e non potrà mai andare tutto bene.

Il precedente che si vuole creare è quello di poter dare la caccia a giornalisti in tutto il mondo che vogliano raccontare ciò che ricade nel pubblico interesse, quando questo interesse compromette l’immagine che gli Stati vogliono dare di sé. La libertà di stampa, garantita dal 1° emendamento della Costituzione americana e dalle Costituzioni di tutti i paesi che si dichiarano democratici, nasce proprio con questa funzione di controllo. Una funzione che viene esercitata sempre meno, nei fatti, dagli organi che dovrebbero informarci.

Con l’incriminazione di Julian Assange il messaggio è chiaro: il potere pretende di avere il controllo totale sull’informazione, scoraggiando ulteriormente qualsiasi tentativo di informare realmente il pubblico su questioni essenziali.

È davvero questo il mondo che vogliamo?

[i]La mia traduzione dell’ultima parte del processo in cui si parla della salute di Assange e di altri aspetti rilevanti è disponibile qui: https://wetooareprotesters.home.blog/

[ii]https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-si_chiude_il_caso_assange_testimone_chiave_ammette_di_aver_mentito/82_42060/?fbclid=IwAR1dSkiNf6qBiDxFWOgEq81g1N2A6_vh0ZZ6YGc64ehw8F9Io9Rz_6WMOMk

[iii]Qui certamente non intendo affermare sia sbagliato parlarne, ma alludo al fatto che in Italia, così come nel resto d’Europa, risulti molto più facile farlo rispetto agli altri casi politici di detenzione arbitraria in cui la responsabilità ricade sugli Stati Uniti.