Dopo un’attenta riflessione ho deciso di raccogliere l’esortazione del Portavoce di Amnesty Italia

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha pubblicato delle precisazioni riguardo ad un articolo di Pressenza a mia firma, che rilanciava la denuncia del gruppo milanese “Mai più lager – NO ai CPR” riguardo al fatto che una persona che opera in Amnesty Lombardia abbia ruoli direttivi all’interno del centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) Corelli di Milano e alla sistematica negazione di Amnesty Lombardia alla promozione o partecipazione a iniziative inerenti ai CPR.

Gli argomenti che riguardano diritti e dignità della persona sono aspetto fondante della mia attività e dell’attività di Pressenza, di cui – non a caso – faccio parte, ecco perché ho deciso di dibattere pubblicamente sulla questione, non per polemica, non per esercizio del “fuoco amico”, ma semplicemente per stimolare una riflessione che è impossibile non ritenere doverosa.

Dal sito di Amnesty international Italia:
“Siamo un Movimento globale di persone che hanno a cuore i diritti umani e che lavorano insieme per promuoverli e difenderli ovunque nel mondo. Ci battiamo ogni giorno per le persone, qualsiasi siano i loro nomi e ovunque si trovino, quando libertà, verità, giustizia e dignità sono negate.
Tutte le nostre azioni sono basate su fatti documentati grazie ai nostri ricercatori sul campo, che verificano e segnalano le violazioni dei diritti umani. Attraverso la pressione sulle istituzioni, la mobilitazione della società civile, i progetti di educazione ai diritti umani, le campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di raccolta firme, diamo voce a chi non ha voce.

Sul sito è peraltro citata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: rileviamo che dell’art. 13 è citato solo il comma 1 ma non il comma 2: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” che sancisce – abbiamo affrontato l’argomento in questo articolo – la libera circolazione delle persone.

Il sistema detentivo ai fini di rimpatrio prevede la privazione di libertà proprio perché le persone hanno lasciato il proprio paese, aspetto che implica inevitabilmente l’entrare in un altro paese.

Una delle questioni denunciate da “Mai più lager – NO ai CPR” è piuttosto chiara, come lo è la risposta da parte di Amnesty che hanno ottenuto, aspetto che desta inevitabilmente perplessità: per usare un esempio è come se un membro di Sea Watch si arruolasse nella guardia costiera libica e Sea Watch rispondesse che ciò non viola il proprio statuto.

Noury scrive: “trovo estremamente spiacevole che sia stato ventilato un conflitto d’interessi“: nel mio articolo non si parla affatto di “conflitto d’interessi”, non ci è dato di sapere se la persona che attualmente lavora nel CPR di Milano percepisca due stipendi, ma si parla di ben altro e a mio avviso ben più dirimente, ovvero di un “conflitto di natura etica”.

Una persona che opera nel campo dei diritti umani per la più importante organizzazione mondiale a difesa dei diritti, opera in un luogo ove chiunque in Italia si interessi di “diritti” (cit. dal sito di Amnesty) ne denuncia la sospensione e la negazione di “dignità” (cit. dal sito Amnesty).

Nella replica al mio articolo viene citato un comunicato nel quale Amnesty prende posizione contro i CIE (ora CPR), che Noury chiama impropriamente CPT (ridefiniti CIE dalla legge 189 del 2002, la Bossi Fini, ulteriormente rinominati CPR dalla legge 13/2017, occorrerebbe utilizzare i termini corretti per evitare confusione nei lettori): quel comunicato è del 2005, il che implica che non ci siano ulteriori azioni da parte di Amnesty da 16 anni a questa parte, anni nei quali la questione della detenzione amministrativa (nei centri di permanenza per il rimpatrio, i CPR) è notevolmente cambiata in Italia e in Europa.

Il Portavoce di Amnesty continua: “Devo precisare, infine, che Amnesty International Piemonte, citata impropriamente come aderente ad azioni per la chiusura del Cpt quasi a voler rilevare una posizione diversa da quella della nostra sezione lombarda, era scesa in piazza a maggio per ricordare Balde Moussa, suicidatosi all’interno del Cpt di Torino dopo essere stato aggredito e massacrato di botte da tre persone nella città di Ventimiglia.

Non è nostro compito entrare nelle questioni interne di Amnesty, ci siamo limitati – questo sì è uno dei nostri compiti – al dovere di cronaca: a tal proposito citiamo il documento “IL C.P.R. DI TORINO È UNA FERITA NELLO STATO DI DIRITTO” con il quale le associazioni di giuristi piemontesi hanno convocato la manifestazione a Torino, manifestazione alla quale Amnesty ha partecipato e di cui pubblichiamo la foto di copertina; nel documento di convocazione si parla appunto di negazione di “diritti e dignità“.

Per eliminare dalla discussione eventuali spunti polemici: nella foto di copertina di questo articolo il cartello sulla chiusura dei CPR è bianco e non giallo, sostenibile quindi un’iniziativa a livello personale, poco importa, in piazza c’ero e come me c’erano molte altre persone molto favorevolmente impressionate, tra l’altro, dalla presenza così esplicita delle persone di Amnesty Piemonte.

Il nostro Moussa si è tolto la vita confinato in isolamento nel CPR di Torino, privato della libertà, del telefonino, avulso quindi dal mondo, nelle mani dello Stato, in un sistema detentivo che ha negato sistematicamente alla Garante di Torino che fosse presente nella struttura, sistema che solo l’anno scorso ha provocato altri tre morti: quel “quanti morti ancora?” questo sì, nel cartello giallo, è inequivocabile in quel contesto, e questa è – ancora una volta – semplicemente cronaca.

Noury inoltre dichiara: “(La posizione di Amnesty, n.d.r.) é peraltro coincidente con quella del Garante per le persone private della libertà personale“: non c’è che esserne lieti, il Garante Nazionale rileva molte criticità anche per ciò che concerne la “dignità” delle persone private della libertà all’interno dei centri di permanenza per il rimpatrio, peraltro ha chiesto, in un comunicato stampa del 14 giugno scorso, un “ripensamento complessivo del sistema della detenzione amministrativa per persone migranti“.

Tuttavia non rilevo alcuna iniziativa a sostegno della posizione del Garante Nazionale.

C’è un altro aspetto che facciamo presente ad Amnesty: da tempo nei CPR è negato l’accesso agli organi d’informazione, negazione della libertà di stampa, diritto inalienabile sancito dalla Costituzione (Art. 21).

La questione dei diritti non può che essere affrontata in modo intersezionale, il che implica una visone complessiva, globale. L’intersezionalità implica inevitabilmente una coerenza di fondo.

Lecito chiedersi quindi: non sarebbe inevitabilmente opportuno, che oggi, nel tempo presente, i “ricercatori sul campo” di Amnesty si occupassero di un problema così spinoso, definito una ferita nello stato di diritto, in costruttiva collaborazione con associazioni per la promozione dei diritti delle persone migranti come ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), che ha pubblicato il “Libro nero sul CPR di Torino“, Legal Team Italia, LasciateCIEntrare e, appunto, col Garante Nazionale e i Garanti territoriali?

Non sarebbe quindi altrettanto opportuno promuovere o partecipare a manifestazioni (aspetti negati a Milano) contro un sistema che ha coinvolto, solo l’anno scorso e solo in Italia, più di 4.000 persone (non sono una priorità?) che sono state private della libertà in assenza di reato penale, ma solo in quanto migranti? Questo non fa parte della “pressione sulle istituzioni“, della “mobilitazione della società civile“?

E non sarebbe anche in questo caso inevitabilmente opportuno istituire “campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica” affinché venga affrontata, a livello non solo italiano, la privazione della libertà in assenza di reato penale per le persone migranti? Questo non fa parte del battersi “per le persone, qualsiasi siano i loro nomi e ovunque si trovino, quando libertà, verità, giustizia e dignità sono negate“?

Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese“.