Intervento al convegno del PRC sul futuro del sistema auto

Il ‘900 è stato il secolo dell’automobile. L’era dell’auto è iniziata con l’invenzione del motore a scoppio, un propulsore che ha permesso di liberarsi dal peso della macchina a vapore e dal vincolo di binari o di linee elettriche dedicate. Ha trovato la sua conclusione negli sviluppi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC), che grazie alla condivisione del veicolo permettono di liberare il trasporto personalizzato dal vincolo del possesso di un’auto personale, dalla congestione prodotta dalla moltiplicazione dei veicoli e – forse – anche dall’onere (che per molti è un piacere) della guida.

Se l’inizio dell’era dell’automobile è stato rapido, tumultuoso e “glorioso”, la sua fine appare lenta, faticosa e controversa. Ma non c’è dubbio che la civiltà dell’automobile, così come l’abbiamo conosciuta e vissuta, sia destinata a concludersi, così come sono destinate a finire altre epoche a noi familiari, come quella dei combustibili fossili, dell’agricoltura e dell’allevamento industrializzati, della produzione di rifiuti, emblema di un’economia lineare, delle grandi infrastrutture di trasporto, di una finanza senza regole. A meno che si decida, o si permetta al nostro pianeta, e alla vita che lo popola, compresa quella della specie umana, di precipitare verso la sua soppressione.

Il tempo incalza. Non ne abbiamo più molto a disposizione, come ci ricordano l’IPCC, il movimento Fridays for Future e Papa Francesco. Ogni discussione sul futuro dell’auto, in Italia come all’estero, che prescinda da questo quadro di riferimento è tempo perso o, peggio, inganno.

L’epoca dell’automobile è finita anche se l’auto non vuole morire (e anche se su questo tema ho scritto un libro: Vita e morte dell’automobile). Però si tratta di “un morto che cammina”, tenuto in vita da espedienti che non fanno che moltiplicarne il danno. Tra questi:

– gli incentivi al settore: l’ex Fiat, ex Fca (ma anche ex Alfaromeo, ex Lancia, ex Innocenti) e ora Stellantis è vissuta e vive – come tutti i suoi concorrenti – di sussidi. Con questi sussidi sono stati costruiti quasi tutti i suoi stabilimenti, gran parte dei quali sono oggi capannoni vuoti e viene mantenuta in cassa integrazione gran parte dei suoi dipendenti. L’automotive è un grande esempio di “sussidistan”;

– strade, autostrade, svincoli e parcheggi che divorano suolo e risorse per funzionare come attrattori di traffico: più se ne fanno per snellire la congestione e più questa aumenta;

– l’auto elettrica, che non elimina l’inquinamento (dato che l’85 per cento del particolato è provocato da ruote e freni e non dalle emissioni allo scappamento), non elimina la congestione, non elimina il sovraconsumo di materiali e di energia necessario a muovere 1.000-2.000 kg di ferraglia per spostare mediamente 80-100 di carne umana. Dal petrolio alle ruote il rapporto tra consumo e rendimento in termini di calorie è mediamente di 20 a 1. Con il sole e il vento questo rapporto non migliora;

– la restrizione delle risorse da indirizzare verso altre modalità di trasporto: su ferro, dolce, flessibile, condiviso, con veicoli e tracciati adatti a queste diverse funzioni;

– la perdita della socialità prodotta dalla cessione al traffico degli spazi pubblici, un tempo riservati all’incontro e al confronto tra diversi;

Il passaggio a nuove modalità di spostarsi e spostare cose facendo a meno dell’automobile impone ovviamente un ripensamento e una riconversione radicali degli assetti urbani, che qui non posso sviluppare, ma che hanno il loro perno nella riconfigurazione della città intorno allo schema dei 15 minuti. 15 minuti per raggiungere a piedi qualsiasi servizio utile allo svolgimento della vita quotidiana, compreso il posto di lavoro, che potrebbe trovare nella moltiplicazione dei working center una mediazione tra il lavoro a distanza svolto a casa e il bisogno di lavorare in contesti che consentano la frequentazione e il confronto con lavoratori impegnati in attività tra loro diverse.

Certamente, nel secolo dell’auto il settore dell’automotive è stato – dopo l’edilizia, il cui sviluppo è stato completamente subordinato alla scelta di “far posto” all’auto) il principale datore di lavoro del mondo sviluppato e oggi anche di gran parte delle economie emergenti. Che ne sarà ora dei suoi addetti?

Attualmente il settore sembra in ripresa, ma non c’è da farsi illusioni, perché il suo destino è segnato dalle scadenze della crisi climatica e ambientale. Discutere dell’auto oggi significa affrontare i problemi difficilissimi della sua riconversione: non solo degli stabilimenti, ma soprattutto delle sue maestranze, che sono persone: con la loro vita, la loro famiglia, i loro legami, la loro esperienza, la loro dignità.

Innanzitutto si tratta di promuovere la produzione di altri mezzi di trasporto più adatti alle nuove modalità della mobilità di cose e persone, cosa per cui gli impianti, le competenze e l’esperienza degli attuali addetti sono più portate (ma non dimentichiamo tutto il settore dell’indotto, a monte, ma soprattutto a valle degli impianti di produzione). Poi anche la messa in opera di tutti gli impianti e le attrezzature necessarie a una rapida transizione energetica, che ha un indotto almeno altrettanto vasto. Poi, in un crescendo di difficoltà, quella di altri settori coinvolti dalla irrinunciabile riconversione a una economia circolare.

Ma non sono transizioni che possano essere affidate alla convenienza o alla buona volontà della proprietà (dei padroni), vecchia o nuova che sia; né ci si può illudere che possa essere gestita dallo Stato, oggi completamente sprovvisto, dopo aver smantellato tutta l’industria pubblica, delle competenze necessarie a gestire un impianto industriale. Meno che mai si può affidare una prospettiva del genere all’autogestione delle maestranze o al “controllo operaio” immaginato e a volte prospettato decenni fa: non farebbe che mettere i lavoratori di ogni impianto in concorrenza con quelli di tutti gli altri simili. Quello che è necessario per promuovere la transizione è una “coalizione” di tutte le forze disponibili di un territorio, certo a partire dai lavoratori e dai tecnici dei singoli impianti, ma sostenuta da tutte le forze vive del territorio e capace di coinvolgere innanzitutto le istituzioni del governo locale. L’esempio maggiore che ci troviamo di fronte oggi è la mobilitazione in atto a Civitavecchia per la conversione a energia verde dell’impianto di Torre Valdaliga: una riedizione di quella “coalizione sociale” il cui progetto è stato abbandonato anni fa, subito dopo essere stato lanciato; forse perché si erano selezionati i soggetti ammessi alla sua costituzione prima ancora di definirne le finalità. Ma bisogna muoversi in questa direzione fin d’ora. Come credo anche voi, sono per un mondo fondato sulla cooperazione e non sulla competizione. Ma è indubbio che chi si porterà avanti lungo questa strada avrà dei vantaggi rispetto a chi rimane indietro. Ma nemmeno si può pensare di andare avanti per 10-12 anni as usual, per poi accorgersi che bisogna cambiare tutto, come forse ci sta invitando a fare il nuovo Ministro della Transizione Ecologica.

Ma la riconversione dell’automotive, come di tutti gli altri comparti destinati a ridimensionamento, mette all’ordine del giorno due altri elementi necessari ad affrontare quel “salto d’epoca” che ci troviamo di fronte. Il primo è la riduzione dell’orario di lavoro (e dell’impegno per chi un orario non ce l’ha). E’ vano andare alla ricerca di lavori fittizi o, peggio, inutili e dannosi, con il solo scopo di “creare occupazione” per colmare i buchi di un sistema che, riconvertito o no, richiederà sempre meno lavoro. Meglio ridistribuire tra una platea più ampia quello veramente necessario, sia il lavoro direttamente produttivo, perché remunerato, sia quello cosiddetto riproduttivo – che non è solo il lavoro domestico – che non è considerato lavoro perché non è remunerato. Il secondo è il reddito di base aperto a tutti coloro che ne hanno bisogno, non solo per coprire i vuoti nel passaggio da un impiego all’altro, o quelli provocati dalla perdita definitiva di un impiego reso superfluo dalla riconversione, ma anche per permettere a tutti una scelta più libera dell’attività in cui impiegarsi, unica strada per imporre ai futuri datori di lavoro di rendere più attraente e meglio remunerata le attività richieste dalla riconversione.