Marco Omizzolo:  spero che conosciate già questo nome, sennò è una buona occasione per scoprire chi è, magari approfondire, magari comprare il suo libro “Sotto padrone”, ed. Feltrinelli.

Marco Omizzolo è figlio d’arte: un ramo della sua famiglia, di origine siciliane e precisamente pantesche, ha vissuto a lungo in Tunisia, come migliaia di italiani che lì avevano trovato lavoro e spesso fortuna. Quando nel ’64 tutti gli stranieri dovettero scegliere quale cittadinanza avere, e, nel caso mantenessero la loro vecchia cittadinanza, lasciare le terre, moltissimi di loro rientrarono in Francia o in Italia. La sua famiglia sbarcò nei pressi di Roma e rimase per tre anni, come moltissimi altri, in un campo profughi ad Alatri. Anche nei pressi di Napoli c’erano campi profughi dove vissero per anni tanti italiani. L’altro lato della sua famiglia veniva dal Veneto, in molti arrivarono da quella regione, per prosciugare le famose pianure pontine.

Marco è nato nel 1975, forse nella sua famiglia si respirava ancora quell’aria. Cresce a Sabaudia (provincia di Latina), paese che ama, terra che ama. Dopo le superiori si iscrive a giurisprudenza a Roma, fa avanti e indietro. Ma dopo 3 anni scopre la sociologia e se ne innamora. Cambio di facoltà e immersione totale. Da lì i suoi studi si fondono con la realtà circostante. I libri prendono vita, la ricerca si fa carne e ossa. Quanti immigrati aveva visto percorrere avanti e indietro le strade di quella pianura? Chi erano? Cosa facevano? Dove vivevano?

Trascorre un anno e mezzo con loro, vive con loro, mangia con loro, impara come può la loro lingua. Li conosce e si fa conoscere, o meglio: li riconosce e loro lo riconoscono. Nel frattempo prende appunti, intuisce, capisce, scrive, ma non è abbastanza. Bisogna capire dove vanno quelle 12 ore al giorno, quando lui rimane alle baracche o nel tempio, a conversare, a cucinare, a bere il the.

Ha capito come funziona il sistema: tra gli stessi indiani sikh alcuni sono “caporali” e assumono, a giornate o a settimane o a stagione, decine, centinaia di loro connazionali. Chiede di poter lavorare anche lui, spiega il suo intento, la ricerca che sta facendo. La relazione è solida e quindi viene accettato anche questo passaggio. In quei tre mesi vede da vicino, da dentro, il sistema di sfruttamento. Guadagna come gli altri quei pochi euro al giorno, china la testa; il padrone, bianco, non lo riconosce. Lui osserva, memorizza. Un giorno, su richiesta di un giovane che gli chiedeva ansiosamente di seguirlo, si avventura nella campagna fino a un casolare; qui trova una baracca e capisce che un ragazzo è chiuso là dentro. Forza il lucchetto e lo libera. Da mesi lavorava come schiavo per un padrone che a fine lavoro lo chiudeva lì dentro. Un Melampo, il cane che compare in “Pinocchio”.

Marco registra tutto con gli occhi, con la mente, con il cuore. Capisce anche il traffico sull’immigrazione, sui sogni, da dove parte e come finisce lì. Riesce a farsi accettare anche dal trafficante e viaggia con lui in India, ricostruendo il circuito che rende queste persone quasi schiave, tale è il debito che rimane sulle schiene loro e soprattutto delle loro famiglie in patria.

A quel punto, come fosse uno dei gesuiti del film Mission, torna a casa e affila le armi. Scrive, scrive, ha raccolto documentazione per fare molto. C’è solo l’imbarazzo della scelta. C’è da finire la tesi di dottorato per poi partire in quarta. Da dove cominciare?

Marco fa la cosa giusta: aiuta i suoi amici, compagni di vita e di lavoro, a organizzarsi, a organizzare una lotta, uno sciopero. Il 18 aprile 2016 si svolge il primo sciopero dei braccianti della zona, quattro mila uomini in piazza a Latina, quasi tutti immigrati, quasi tutti indiani di una regione: il Punjab. Marco quel giorno è in mezzo a loro: se tutti quegli uomini, giovani e meno giovani, escono allo scoperto, lo stesso vale per lui.  che ha messo un palo in mezzo a un ingranaggio di sfruttamento da vecchio stato sudista.

Marco, che è sociologo Eurispes e presidente di Tempi Moderni, non ha tantissimo tempo e io avrei mille domande da fargli. Eccone alcune :

Come è andata con la tua famiglia?

Bene, mi hanno sempre supportato, appoggiato. E questo vale anche per la mia compagna Pina, che ha saputo proteggermi con il suo amore. E’ stato fondamentale, diversamente non so come avrei fatto. Certo con i miei compaesani le reazioni sono state diverse: molta solidarietà, ma anche sguardi distanti o peggio. Qualche amico mi ha fatto i complimenti, ma poi ha detto che preferiva non farsi vedere con me. E poi la “macchina del fango” è iniziata, hanno detto di tutto, che guadagnavo sulle spalle dei migranti, o peggio. Poi sono arrivate le minacce, l’auto vandalizzata e altro. Da allora la polizia sorveglia e i Carabinieri controllano. Non è facile, ma si va avanti. Da quello sciopero nacque una nuova legislazione sul caporalato (legge 199/2016) e si sono fatti grandi passi avanti. Certo la situazione rimane difficile, c’è una cultura da scalzare, c’è razzismo diffuso.

Cosa ne pensi dell’ultima sanatoria?

E’ stata una possibilità teorica che si è tramutata in un grande inganno: sono arrivate più di 200.000 domande e di queste dopo più di 8 mesi ne sono state evase finora forse l’1%. Una vergogna, una presa in giro. Gli immigrati indiani che ho conosciuto non sono affatto irregolari, hanno un contratto e un permesso di soggiorno che serve ancora di più come arma per tenere in bilico e sotto ricatto una persona. Che ci sia scritta una cosa sul contratto e poi lavorino 5 volte tanto e prendano 5 volte meno, questo, per la burocrazia, non conta.

Come è possibile che il caporale sia uno di loro, uno che vive in mezzo a loro?

E’ una figura rispettata, dà lavoro, a suo modo “aiuta”, per loro è un alleato. E’ l’unico che ha rapporti con il padrone bianco. In realtà sono complici di una violenza e di una brutalità diffuse. Grazie alla legge 199 sul caporalato molti padroni e caporali sono finiti in galera. Ma bisogna andare avanti, c’è ancora tanto da fare.

Se, come diceva Brecht, “beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, credo che non siamo ancora un popolo beato…