Intervisto Anita Pirovano, giovane consigliera comunale milanese. In qualità di presidente della sottocommissione carcere del Comune di Milano il 5 marzo scorso ha visitato il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di via Corelli.

Raccontaci di questa visita

C’ero già stata dieci anni fa; allora lavoravo all’ARCI e avevo fatto parte di una delegazione che entrò in quello che allora si chiamava CIE. Fu uno di quei giorni che ti segnano, in cui non puoi dimenticare quello che hai visto. Fu sconvolgente.

Quel giorno scoprii in me questa passione per il tema del carcere e dei luoghi in cui si restringe la libertà. Il centro di via Corelli chiuse nel 2013, e nel 2014 divenne un centro d’accoglienza profughi. Fu una vittoria.

Ora ci sono tornata con un ruolo diverso, ma le sensazioni sono state altrettanto sgradevoli. Premetto che secondo me questi centri non possono essere “umanizzati”. Vanno chiusi tutti, una volta per sempre e mai più riaperti, non hanno senso, fanno parte di una propaganda, di un’immagine che si vuole dare. Bisogna cambiare paradigma e questi centri fanno parte di una logica che va superata una volta per tutte.

Che differenze hai notato rispetto alla visita di dieci anni fa?

Se è possibile le cose sono addirittura peggiorate: il fatto che questa volta le persone vi stiano mediamente poco tempo fa sì che il CPR di via Corelli sia stato spogliato di tutto. Non c’è mobilio, negli spazi comuni c’è un vuoto che stringe il cuore, hanno “timore” che qualsiasi cosa possa essere “vandalizzata”, distrutta. Così anche la televisione ha una grata davanti che la rende ancora più triste e il telecomando non è a disposizione. Forse c’è da chiedersi da dove veniva tutta quella rabbia con la quale hanno divelto anche le porte dei bagni e che ora non vengono rimesse.  Quando siamo entrate, avevano installato il giorno prima due telefoni “tipo cabine” che sembravano usciti dal museo archeologico. 

Avete potuto avere un contatto con i detenuti?

Si. Avremmo voluto vedere le stanze dove stanno, ma con la scusa della privacy non ce l’hanno permesso. Abbiamo almeno visto gli spazi comuni e la scena è stata da Grida manzoniane: la loro solitudine e isolamento sono tali che richiamati da urla sono corsi tutti a dirci qualcosa: che c’è il Covid, a cercare un appiglio, a farci vedere un foglio, un documento, che direbbe quanto non si ha diritto di tenerli chiusi là. Ho visto persone traumatizzate, ho notato un grande spaesamento, rabbia, ma soprattutto disperazione. Tutto molto triste.

La loro provenienza?

Ci avevano detto che erano in gran parte arabi, in particolare tunisini, ma ci sono anche persone di altre nazionalità. Eppure il mediatore linguistico è uno solo e conosce l’arabo. Quando abbiamo chiesto come facevano con gli altri, l’ente gestore ci ha detto che molti di coloro che lavorano nel centro sono a loro volta immigrati e quindi “aiutano con le traduzioni…”. Ma o il mediatore è un diritto o non lo è. Un mediatore poi è formato come tale, non è l’inserviente che per caso viene dal tuo paese.

E’ quindi il clima di opacità a essere insopportabile, così come sono disegnati sul loro volto l’incertezza, l’ansia, il non sapere. Ci sono molte meno certezze che in carcere. Là hai delle regole chiare, puoi chiedere delle cose, fare una denuncia e poi sai quanto finisce la tua pena. Qui no. Aspetti, nel vuoto. Spazio e tempo sono svuotati. C’è una trasparenza così scarsa che rasenta l’invisibilità.

Facevi parte di quel gruppo di consiglieri comunali che ha manifestato in piazza contro l’apertura del CPR. Che cosa potete fare di più?

Dobbiamo spingere perché la giunta prenda posizione in maniera ancor più netta e chiara, entro l’estate. Bisogna fare tutto il possibile affinché si parli di questo tema e ci si esponga, rischiando anche di “perdere consensi”.

Cosa faresti se fossi una donna tunisina che ha venduto tutto quello che aveva per pagare dei trafficanti, ha rischiato la vita in un viaggio per mare, ha visto la propria barca in panne, è stata salvata e magari ha aspettato una settimana al largo del porto prima di poter sbarcare, poi è finita in una nave quarantena o in un hotspot, ha fatto un viaggio di mille e passa chilometri verso il nord Europa ed è stata chiusa in un centro sapendo che a giorni la caricheranno su un aereo e tornerà al punto di partenza?

Vorrei che la mia rabbia prevalesse sulla disperazione.