“L’embargo può funzionare solo se è totale, non certo se ci si limita a dire: ‘Non mandiamo aiuti militari diretti'”. A parlare con l’agenzia Dire è Yeshua Moser-Puangsuwan, ricercatore del movimento International Campaign to Ban Landmines (Icbl) che ha denunciato l’uso in Myanmar anche di proiettili italiani.

In primo piano nell’intervista il rischio di triangolazioni, vale a dire la possibilità che forniture di armi o munizioni arrivino a governi o regimi colpiti da sanzioni. Secondo Moser-Puangsuwan, “l’embargo può essere uno strumento molto efficace per sanzionare comportamenti che riteniamo inaccettabili, come rovesciare un governo eletto e poi uccidere i suoi elettori, ma bisogna essere sicuri che non venga aggirato”.

Potrebbe essere andata proprio così, almeno in un caso, con le munizioni italiane: il 3 marzo, come documentato da giornalisti a Yangon, un proiettile prodotto dall’azienda livornese Cheddite Srl ha mandato in frantumi il parabrezza di un’ambulanza. A far fuoco agenti di polizia, che hanno poi picchiato alcuni operatori, impegnati a soccorrere feriti in strada durante le manifestazioni di protesta contro la giunta militare che ha preso il potere a febbraio arrestando la Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.

Cheddite Srl ha confermato di esportare munizioni in diversi paesi del mondo, ma ha negato di aver effettuato vendite al Myanmar. Il paese è oggetto di sanzioni europee, in particolare rispetto ad armi e tecnologie che possano essere utilizzate anche per la repressione interna, sin dagli anni Novanta. Insieme con altre 13 rappresentanze diplomatiche, l’ambasciata d’Italia a Yangon ha condannato il golpe di febbraio e chiesto ai militari di “fermare la violenza nei confronti dei dimostranti e dei civili che contestano il rovesciamento del loro governo legittimo”.

Stando a Unroca, un registro delle Nazioni Unite sulle vendite di armi, tra i paesi che hanno siglato contratti con Yangon dopo il 2000 figurano Cina, Russia, Serbia e Ucraina.

Secondo Moser-Puangsuwan, di base in Thailandia ma in contatto costante con fonti, colleghi e giornalisti in Myanmar, uno strumento di pressione che potrebbe rivelarsi efficace nei confronti della giunta è quello diplomatico. “L’esercito del Myanmar non può conquistare con la forza la legittimità, che viene invece attraverso il riconoscimento internazionale” dice il ricercatore. “L’UE non dovrebbe avere alcun contatto con i rappresentanti della giunta all’estero e dovrebbe riconoscere al contrario i deputati eletti a novembre, ora parte del Comitato del Pyiduangsu Hluttaw”. Il riferimento è a un organismo noto con l’acronimo Crph, che ha già nominato un proprio Ministro degli Esteri e ambasciatori in diversi paesi tra diplomatici che hanno condannato l’intervento dell’esercito e si sono schierati con il governo eletto. Secondo Moser-Puangsuwan, privato di legittimità a livello internazionale, “il regime non sarà in grado di consolidare il proprio potere all’interno, o quantomeno avrà grandi difficoltà”.