Crisi che s’intrecciano – La crisi dovuta al corona virus, in cui il mondo è immerso, si intreccia con altre, che ne sono, al tempo stesso, cause ed effetti.

Mi riferisco:

    • alla profonda ferita alla democrazia, così come l’abbiamo intesa e propagandata nei paesi dell’Occidente – quelli con capo-fila gli USA -, resa simbolicamente, e plasticamente, evidente dal recente attacco al Campidoglio, a Washington;
    • alla situazione ambientale del pianeta che rischia di portare alla estinzione della vita in un futuro non lontanissimo;
    • al prevalere dell’individualismo ed al venir meno della dimensione collettiva nell’affrontare i problemi.

Tutto ciò non nasce improvvisamente e non è un frutto del destino “cinico e baro” (come sostenne, nel secolo scorso, a proposito di eventi disastrosi, un personaggio, Giuseppe Saragat, che ricoprì anche la carica di Presidente della Repubblica), ma è la conseguenza di comportamenti, di atti sociali e politici, di modi di pensare diffusi, sviluppatisi in particolar modo a partire dagli anni ’70, dalla seconda metà degli anni ’70 per essere più precisi (dopo, cioè, che si era concluso il “trentennio glorioso” – com’è stato definito da alcuni storici il periodo dal 1945 al 1975 – in cui, in Occidente, la ricostruzione e lo sviluppo capitalistico seguiti alle tremende distruzioni della seconda guerra mondiale erano stati accompagnati, da misure di welfare, più o meno efficaci, a seconda della conduzione politica dei diversi paesi).

Le ferite alla democrazia – Guardiamo ora più approfonditamente alle crisi che si intersecano con quella dovuta alla pandemia. E partiamo dalle ferite inferte in questo periodo alla democrazia, negli Stati Uniti, ma non solo.

La democrazia non si misura solo con la possibilità di effettuare libere elezioni, ma deriva da un insieme di fattori – ben evidenziati nella Costituzione italiana, quando, ad esempio, all’articolo 3, si assegna alla Repubblica il compito “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” -. Un’affermazione che si può collegare a quella di Lenin relativa alla “democrazia della cuoca”, all’indicazione cioè che, in 2 una società profondamente cambiata, la cuoca (oggi si potrebbe dire la lavoratrice/il lavoratore precaria/o) debba essere messa in grado di governare.

La democrazia come processo – La democrazia, quindi, è un processo che non si può ritenere mai pienamente concluso: si potrebbe paragonare all’utopia definita da Eduardo Galeano un orizzonte verso il quale tendere, anche se non lo raggiungeremo mai (il suo ruolo è proprio quello di spronarci costantemente a continuare il cammino).

Il livello della “democrazia reale”, in un determinato periodo in un determinato Paese – prendiamo ad esempio il nostro -, dipende:

    • dalla quantità e dalla qualità dell’informazione,
    • dai percorsi educativi e di conoscenza in atto,
    • dalla presenza, o meno, di occasioni diffuse di aggregazione e di confronto politico-culturale,
    • dall’esistenza, o dalla mancanza, di atti volti a rimuovere gli ostacoli indicati nell’articolo 3 della Carta Costituzionale,
    • dall’effettiva garanzia di poter esprimere, liberamente, le proprie opinioni ed associarsi (senza che questo sia conseguenza del proprio potere economico ),
    • dall’attivazione di occasioni e strumenti di partecipazione (non a caso si parla di “democrazia partecipativa”),
    • dal fatto che i conflitti possano svilupparsi appieno, in maniera nonviolenta (il conflitto può essere definito il “sale” della democrazia, che in sua assenza diventa una “pietanza insapore”, priva di sostanza).

Ed è attraverso la partecipazione, il confronto, il conflitto che i soggetti in campo hanno la possibilità di raggiungere una posizione egemonica nella società (come ha argomentato Antonio Gramsci, l’egemonia va colta sul terreno culturale, del senso comune, dei saperi, maturati sia nelle accademie che nei movimenti, e costituisce il retroterra della contesa politica, non riducibile ad una pura e semplice espressione delle differenze economiche e di classe o soltanto ad una lotta per il potere).

Una democrazia “offuscata” – E’ proprio perché diversi dei fattori qui indicati sono venuti meno, o si sono attenuati nel corso del tempo, che tale livello si è paurosamente abbassato negli ultimi decenni.

Si è avuto un calo notevole dell’affidabilità e dell’influenza dei mass-media tradizionali (quotidiani, radio, tv), mentre il campo veniva sempre più invaso dai social, spesso diffusori di fake-news (non che gli organi d’informazione ne siano privi, ma sono più controllabili ed è più facile 3 mettere in campo delle contro-argomentazioni).

Sono stati diminuiti progressivamente, in nome del rigorismo che imponeva, ed impone, sempre più tagli alla spesa sociale (secondo il dogma dell’obbligo del pareggio di bilancio, leggermente attenuatosi con l’espandersi della pandemia), gli investimenti nei settori dell’istruzione, della conoscenza, della cultura. Ed anche i conflitti, sindacali e, più in generale, sociali, sono calati, sia di quantità che d’intensità.

I movimenti e le lotte che coglievano la complessità delle situazioni e le sapevano leggere in un contesto più generale, esprimendo un alto livello di sapere sociale, hanno ceduto, in buona parte, il passo ai vari populismi che, rifiutando la complessità, hanno affrontato i problemi, e dato di conseguenza risposte, sulla base di semplificazioni fuorvianti (ad esempio: “gli immigrati invadono il paese, dobbiamo difenderci, prima gli italiani”).

Il fascismo del XXI secolo – Un clima come questo, collegato all’aumento delle disuguaglianze sul piano economico – è in continuo aumento il distacco fra i pochi ricchissimi, i “paperoni”, ed una massa in crescita di persone che hanno sempre meno -, produce ed alimenta i mostri del razzismo, della xenofobia, dell’intolleranza (il che provoca un pauroso arretramento sul terreno della democrazia e costituisce il brodo di coltura del fascismo del XXI secolo, esploso in maniera evidentissima e violenta nell’assalto al Parlamento a Washington, fomentato dal Presidente Trump – che sintetizza in se stesso i caratteri negativi indicati in precedenza -, ma da cui non siamo certo vaccinati anche nel nostro Paese).

Crisi della democrazia, quindi, con radici piuttosto lontane, ma con una notevole accellerazione durante la fase pandemica. E con il prevalere di un senso comune che costituisce un terreno fertile

    • per l’affermarsi dell’esigenza dell’ “uomo forte” risolutore dei problemi,
    • per l’individuazione della sicurezza (ma non quella sociale) come priorità assoluta,
    • per la conseguente richiesta, al fine di tutelare l’ordine, di maniere efficaci, energiche e sbrigative (anche al di là della legittimità costituzionale e del rispetto delle carte internazionali che garantiscono il rispetto dei diritti individuali e collettivi).

Tutti elementi questi che portano al fascismo, palese oppure occulto.

Su questa strada incontriamo i decreti del Ministro, di centro-sinistra, Minniti (che si basavano su tale senso comune, cercando di mitigare, ma non troppo, i provvedimenti di respingimento dei/delle migranti – come sostenuto dal comico Crozza, si trattava dell’omeopatia applicata alle 4 politiche per l’immigrazione, e cioè si sceglieva, per contrastare l’intolleranza, di assumere nelle misure prese un po’ d’intolleranza -), notevolmente peggiorati poi dal Ministro successivo, Salvini, di centro-destra, e resi un po’ più umani, dopo una lunga gestazione, dal secondo Governo Conte.

La logica che li ispira, più attenta alla cosiddetta sicurezza della cittadinanza italiana che ai diritti delle persone, è comunque la stessa.

Si tratta di una logica che ha contribuito alla crescita del modo di sentire oggi prevalente.

La crisi ambientale – Alla crisi della democrazia è strettamente connessa quella ambientale, in atto da tempo, ma che sta raggiungendo adesso livelli altissimi.

La pandemia stessa ha come causa prima un rapporto sbagliato, prevaricante e distruttivo, degli esseri umani con il mondo animale e vegetale.

Già in precedenza più volte, va sottolineato per evidenziare la “sordità” della maggior parte dei politici, gli scienziati (non tutti – anche fra loro ci sono quelli asserviti ai “padroni del vapore”, petrolieri e simili, che negano l’esistenza di danni all’ambiente nel continuare ad utilizzare i combustibili fossili -) hanno lanciato dei veri e propri gridi di allarme, segnalando che occorrono profondi cambiamenti, delle vere e proprie inversioni di rotta, nelle politiche economiche ed energetiche, nei consumi, nelle abitudini dei Paesi, delle collettività e delle singole persone.

Fridays for future” ed “Extinction Rebellion” – Le risposte della politica sono risultate tardive e insufficienti, ma dalla società è venuta una spinta a misure più decise, efficaci, tempestive.

Sono stati i più interessati a garantirsi un futuro, i giovani ed i giovanissimi, a sviluppare un movimento, quello dei “Fridays for future”, che ha avanzato richieste precise – riguardanti le scelte da fare nell’immediato per far fronte alla crisi climatica – e che è sceso ripetutamente in piazza negli anni più recenti (fino a che la pandemia non ha ridotto le possibilità di mobilitazione).

Un altro movimento, composto da giovani e meno giovani, nato in Inghilterra e poi diffusosi in molte altre parti del mondo, Italia compresa, è quello di “Extinction Rebellion (sigla XR)”, che si dichiara nonviolento e inclusivo, propone azioni di disobbedienza civile, si basa su parole d’ordine semplici e chiare (le principali:

    • che i governi dichiarino l’emergenza climatica ed ecologica,
    • che si fermi la distruzione degli ecosistemi e delle biodiversità e si 5 porti allo zero netto le emisioni di gas serra entro il 2025).

La catastrofe che incombe – I segnali di catastrofi a breve scadenza si susseguono, a partire dal fatto che cominciano a sciogliersi ghiacciai considerati fino a poco tempo fa “eterni”.

I tempi per avviare cambiamenti che le evitino si riducono sempre di più e si fa via via più pressante l’esigenza che tali cambiamenti, per avere dei risultati concreti, siano molto radicali.

La logica del profitto da perseguire a breve, senza nessuna considerazione sulle conseguenze future, continua però a prevalere su ogni altro ragionamento.

Si prosegue così nell’opera di segare il ramo su cui siamo precariamente appollaiati.

Le multinazionali e i poteri finanziari conducono il gioco e la politica va al rimorchio (mentre, in un mondo decente, pur senza tirare in ballo il socialismo, dovrebbe essere l’inverso), con la Borsa ed il Mercato che costituiscono i punti di riferimento essenziali a cui conformare gli interventi istituzionali.

Coloro che sono al governo nei vari Paesi o si collocano fra i “negazionisti” (quelli che negano le evidenze messe in luce dalla scienza) oppure, nel migliore dei casi, pur ammettendo i rischi per la sopravvivenza dell’umanità, mettono in campo, per non scontentare i “padroni del vapore”, misure troppo timide – in nome di una gradualità che dovrebbe, invece, va ribadito con forza, cedere il passo, prima che sia troppo tardi, ad una radicalità veramente incisiva -.

Crisi dell’agire collettivo – Al terzo posto, in questo elenco delle crisi in atto, sta il venir meno della spinta propulsiva ad agire collettivamente, che è poi l’impulso, così forte nel nostro Paese negli anni ’60 e ’70, a “far politica”, intendendo la “politica” così com’è definita, semplicemente e chiaramente, in “Lettera a una professoressa” (“… ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia …” – tutti insieme, aggiungerei, attraverso il confronto ed anche il conflitto, che si esprime con lo sciopero, le vertenze, le manifestazioni, le mobilitazioni, la disobbedienza civile, cioè con tutte le forme in cui si articola la lotta nonviolenta, e che trovano poi, alle scadenze elettorali, un loro possibile sbocco nel voto -).

Anche in questo caso la situazione attuale ha origini lontane.

E’ negli anni ’80 infatti che si ha un’inversione di rotta, conseguenza dell’affievolirsi, e poi dello spegnersi, delle lotte e dei movimenti che avevano caratterizzato i decenni precedenti.

Vi sono alcuni eventi che danno pienamente il senso della fine di quella fase, in Italia e nel mondo:

    • la cosiddetta “marcia dei quarantamila” – in effetti non erano nemmeno la metà – , che nel 1980 (il 14 ottobre) si svolse a Torino, ossia la manifestazione anti-sindacale di coloro – impiegati, quadri, dirigenti – che volevano, in sintonia con i padroni dell’azienda, gli Agnelli, la fine dei 35 giorni di sciopero portati avanti, con presidi “duri” ai cancelli (per non far entrare i crumiri), dagli operai dello stabilimento FIAT (la marcia spinse i sindacati a chiudere rapidamente, e comunque, la vertenza);
    • il licenziamento, nel 1981, negli Stati Uniti, di 11359 controllori di volo in sciopero, ad opera del Presidente Ronald Reagan, un atto che alzò notevolmente il livello della “deregulation”;
    • la conclusione, nel 1985, della lunga e “gloriosa” lotta – intorno alla quale si era sviluppato una grande solidarietà (vedi il film “Pride”, in cui – si tratta di un fatto realmente avvenuto – è una comunità gay a solidarizzare con gli scioperanti) -, condotta, in Gran Bretagna, dai minatori guidati da Arthur Scargill, battuti alla fine dalla Premier Margareth Thacter, quella che aveva lanciato lo slogan “there is no alternative – acronimo TINA -” (“non c’è nessuna alternativa” – alle politiche di riduzione della spesa sociale e di contrasto netto alle richieste del mondo del lavoro -).

Profonde riforme ed una reazione che produce stragi – In Italia, a partire dal 1968, si erano registrati notevoli avanzamenti sul terreno dei diritti sociali e civili (lo statuto dei lavoratori, il divorzio, confermato da un referendum, la riforma del diritto di famiglia, la legge sull’IVG – Interruzione Volontaria di Gravidanza -, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale): nonostante uno slogan molto gettonato nelle manifestazioni fosse “lo Stato borghese si abbatte, non si cambia”, nel decennio dal ’68 al ’78 le istituzioni statali erano state seriamente riformate e i cosiddetti corpi separati (magistratura e polizia), nonché il mondo delle professioni, avevano avuto profonde trasformazioni (con la nascita del sindacato di polizia, di Magistratura Democratica, di Medicina Democratica, di Psichiatria Democratica).

La reazione era stata immediata ed era venuta avanti su più fronti, producendo una lunga serie di stragi e di uccisioni, per la maggior parte opera dell’eversione di destra (cito solo alcuni degli episodi più rilevanti: le stragi di piazza Fontana nel 1969, sul treno Italicus nel 1974, alla Stazione di Bologna nel 1980, l’assassinio del leader democristiano Aldo Moro, 7 sostenitore di un nuovo rapporto con i comunisti, nel 1978).

L’individualismo e il mito del successo – Gli anni ’80 segnano il completo affossamento della stagione delle riforme: prevalgono l’individualismo, il rifluire delle azioni collettive, l’affermarsi della competizione e della corsa al successo, la maggiore attenzione alle ragioni dell’impresa rispetto a quelle delle lavoratrici e dei lavoratori, nel segno della modernità, con ragionamenti che trovano ascolto anche a sinistra (il laburista Tony Blair è il capo-fila di questa svolta – che nel nostro Paese comporta anche il “suicidio” del PCI, in concomitanza con il crollo del muro di Berlino e poco prima che si concluda il processo di estinzione dell’Unione Sovietica -).

Il movimento antirazzista – Certo, anche durante il periodo di riflusso, i movimenti non spariscono del tutto, anzi in certi momenti riappaiono con forza.

Sul finire degli anni ’80 e nel decennio successivo si sviluppa un forte movimento antirazzista che riesce ad avere, in particolari momenti, una incidenza a livello di massa: nel 1989, quando a Villa Literno, viene assassinato un rifugiato politico sudafricano, Jerry Masslo, si ha una risposta imponente, una manifestazione nazionale – organizzata dalle Confederazioni Sindacali, dalle grandi associazioni tipo l’ARCI e le ACLI, dall’associazionismo dei/delle migranti, con l’adesione di forze politiche e di enti locali – che porta a sfilare per Roma un milione di persone (tutto ciò per una persona assassinata dai razzisti, mentre oggi non si hanno iniziative incisive quando sono migliaia i morti in mare in seguito alle politiche di chiusura dell’Italia e dell’Europa).

Il movimento pacifista e i Social Forum – Ancora più forte è il movimento pacifista durante gli anni ’80 e poi, maggiormente, all’inizio del nuovo secolo, quando incombono nuove guerre.

Inoltre, durante i Social Forum, si sviluppa il movimento alter-mondialista, che si pone come obiettivo “un altro mondo possibile”.

In Italia, nei primi mesi del 2003 si susseguono le iniziative pacifiste, il 16 febbraio si tiene una grande manifestazione con quasi 3 milioni di partecipanti, in centinaia di migliaia di balconi, in tutto il Paese, vengono appese le bandiere della pace.

E le analisi ed elaborazioni avanzate durante i Social Forum si dimostrano giuste, sempre di più, nel corso del tempo, senza però che le indicazioni scaturite da quei dibattiti riescano minimamente ad incidere sulle scelte politiche di chi governava.

Questo era un problema che Pietro Ingrao aveva lucidamente avvertito e 8 posto durante il suo intervento al Social Forum di Firenze del 2002: si era chiesto, infatti, come interrogativo principale, in che modo si riesca a tradurre in politica istituzionale tutte le energie positive che intendono cambiare radicalmente la società ed a far sì che non vi sia uno stacco netto, una vera e propria frattura, fra rappresentanti e rappresentati (una frattura che successivamente si è accresciuta, nonostante i tentativi, nati appunto in quella fase, di rendere la democrazia realmente partecipata, con l’introduzione di strumenti quali il bilancio partecipativo, ben presto però scomparsi dalla scena).

Tutto ciò, ed in particolare il fatto che le grandi manifestazioni per la pace (il “New York Times”, nel 2003, quando stava per iniziare l’attacco all’Iraq condotto dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, definì il movimento pacifista “la seconda potenza mondiale”) non siano mai riuscite a fermare una guerra, ha creato sfiducia nella possibilità di determinare dei cambiamenti reali ed alla fine il processo di abbandono del terreno dell’impegno collettivo, già avviato da tempo, ha prevalso.

Ecco, quindi, dove possiamo trovare le radici della crisi della politica che avvertiamo così profonda oggi.

La notte più lunga eterna non è – Da una crisi, però, è possibile uscire.

Come afferma Bertold Brecht in una sua opera – “La canzone della Moldava” -, “la notte più lunga eterna non è”.

Se ci guardiamo intorno, in questa drammatica situazione, troviamo che vi sono anche segnali positivi, di una possibile ripresa di impegno collettivo, di rilancio della partecipazione come elemento essenziale della democrazia, di inserimento della questione ambientale come priorità assoluta di ogni progetto politico:

  • continuano, infatti, anche se in modo autoreferenziale e nonostante le grandi difficoltà che incontrano, le esperienze solidali, di mutuo soccorso, di tutela dei diritti, di cooperazione portate avanti localmente in tutte le parti del Paese
  • sono in piedi, come ho già accennato, i movimenti “Fridays for future” ed “Extinction Rebellion”,
  • si è avviato, con la Società della Cura, un tentativo di dare alle esperienze di base un punto di incontro, di confronto, di scambio a livello nazionale.

E’ proprio partendo dalle azioni determinate dalla semplice affermazione “restiamo umani” e dagli interventi concreti sul territorio che si può giungere ad una riqualificazione della politica, oggi spesso ridotta a giochi di potere o, comunque, riservata agli addetti ai lavori.

Per superare le crisi profonde che si intrecciano fra loro è necessario 9 mettere insieme tutte le possibili energie positive e percorrere un cammino lungo e difficile, tramite lo strumento del “far politica”, per andare verso l’orizzonte, per ora utopico, di una democrazia partecipata.