Merica merica merica

Cosa sarà là ‘sta America

Merica Merica Merica

L’è un bel mazzolino di fior

Seis meses. Dicono che a partire dall’unificazione italiana nel 1860, durante un secolo quasi venti milioni di italiani lasciarono la loro terra per tentare la sorte oltre il mare oceano in paesi sconosciuti e esotici dove, al posto di un presente di miseria e fame potevano trovare la speranza di un lavoro e la prosperità.

E così fu. Arrivavano al porto di Santos in navi stipate all’inverosimile e risalivano la “serra” in treno, con una funicolare costruita dagli inglesi in mezzo alla foresta lungo l’antico percorso dei primi missionari gesuiti giunti in questa terra quattrocento anni prima. Sostavano alla Hospedaria do Imigrante, chiamata la Casa del Dolore, in cui rimanevano in quarantena per poi essere trasferiti nelle fazenda di caffè a sostituire la manodopera schiava a cui poco prima avevano concesso l’illusione di una libertà, mai realizzata.

Durò poco. La massa preferì ritornare alla città di São Paulo e dare vita al proletariato urbano, nelle fabbriche, nelle abitazioni collettive chiamate cortiços, nella nascente industria nazionale. Oppure si diressero verso il sud, dove il clima ameno e la generosità della terra permisero il sorgere di piccole comunità contadine che diffusero la cultura e il culto del pane e del vino. Molti andarono fino in Argentina e in Uruguay. Alcuni scelsero il Venezuela, Altrettanti gli Stati Uniti. Portarono con loro l’anarchismo, le prime organizzazioni sindacali, la coscienza dei diritti dei lavoratori, la famiglia, la pizza e la mafia. Soffrirono discriminazioni, alcuni vennero processati e giustiziati.

Oggi i discendenti di tutta quella gente sono ottanta milioni di persone. La Madre Patria, la Terra Nostra lontana, dalla sua unificazione si trasformò in una potenza economica che, ricca di una cultura millenaria, ha scolpito il suo popolo attraverso mille privazioni, passando per due guerre mondiali, il fascismo, la Resistenza e la guerra civile, seguite dal suo secondo rinascimento artistico per mezzo del cinema, della musica, dello sport e dell’imponenza  industriale.

Sei mesi. Nato così lontano da non risultare sulla mappa, respira sabbia e sconforto di un sole senza pietà, fino ad arrivare al mare. E lì attende, giorni, settimane intere, aspetta la fine che si avvicina, la fine di un viaggio senza fine, la speranza che non sa più cosa sperare: la certezza del dubbio mortale di sapere se il viaggio valeva davvero la pena. Il mare davanti. Lo stesso mare che gli antichi chiamavano Nostrum, nostro, perché tutte le onde, tutte le correnti erano state svelate. Nostrum, nostro, perché il mondo così era, un immenso Mediterraneo dove la Pax Romana e l’Impero della Legge valevano la costruzione dell’unico mondo possibile. Oggi Mare Nostrum significa mio, mai tuo, mai e poi mai suo. Mio mare, mare mio, da essere difeso con le unghie e coi denti da qualunque traversata, da chi si azzardi a navigarlo per arrivare, rubare il mio lavoro, violentare le mie donne, e diffondere malattie. Sei mesi.

Ottanta chilometri separano l’Albania dalla Puglia, la magnifica regione del sud d’Italia, il tallone dello stivale. E quel giorno, l’8 agosto 1991, arrivarono a migliaia. La nave attraccò a Bari improvvisamente, sorta dal nulla. E all’improvviso, dalle profondità del mistero, l’Italia scoprì di essere un paese ricco, un paese da quale nessuno voleva più fuggire e emigrare esportando pizza e mafia. Migliaia di corpi cercarono di sbarcare tra poliziotti e soldati che non riuscivano a frenare la moltitudine. Molti furono portati allo stadio per un improbabile tentativo di selezione. Chi era tutta questa gente, da dove veniva, cosa voleva? Neanche questo fu possibile sapere. La fame, il caldo, la mancanza di igiene, la volontà di fuggire, il tumulto generale, trasformarono lo stadio in un nuovo campo di concentramento dove le norme della Legge cessarono di valere, dove il diritto era abolito dalle circostanze e dall’incapacità delle autorità di far fronte alla situazione. Sei mesi.

Da allora sono trascorsi trent’anni. Adesso non più solamente lo stadio di Bari, ma è tutto il sud d’Italia a essersi trasformato in un immenso campo profughi dove le persone sono riunite in un’eterna attesa di un permesso, un visto, qualcosa  che permetta di uscire da lì, per poter rimanere, abitare, vivere e lavorare dall’altra parte del filo spinato. Quello che fu un gesto disperato di ventimila albanesi oggi si è trasformato nella più grande industria di traffico umano internazionale. Dopo aver attraversato il Sahara, le persone vengono raccolte in Libia in enormi prigioni sotto il controllo dei capi milizia che dominano il territorio dalla caduta di Gheddafi. Ma l’unico mezzo di uscirne e continuare il viaggio in direzione alle spiagge italiane, porta d’entrata di un mondo che non li vuole, l’unico modo possibile è pagando.

Recentemente il governo italiano ha firmato un accordo con la guardia costiera libica: pattugliare il mare e impedire l’accesso di barche clandestine piene di migranti, in cambio di molto denaro. A comandare la guardia costiera sono gli stessi trafficanti di uomini che organizzano il viaggio nel deserto e che, per permettere quello marittimo, pretendono un ulteriore pagamento da chi non possiede più niente. E i profughi sono obbligati a chiedere il loro riscatto alle famiglie rimaste nel paese di origine; solamente così potranno continuare il viaggio. Oltre a speculare sui migranti, oltre a ricattarne le famiglie, ora i trafficanti di uomini sono pure pagati dall’Italia e, di riflesso, dall’Unione Europea. Il suo atteggiamento, fin dall’epoca della nave albanese, è sempre stato quello di ignorare la situazione come se fosse un problema che non la riguardava, un esclusivo problema italiano.

Sei mesi. In trent’anni milioni di persone arrivate delle profondità dell’Africa e del Medio Oriente in guerra hanno tentato attraversare il Mar Mediterraneo. I trafficanti di uomini massimizzano il loro lucro aumentando il numero di viaggi a discapito della qualità delle imbarcazioni. Non più navi, ma gommoni gonfiabili, canotti, trascinati fino alle acque internazionali e abbandonati alla deriva. Quando sulle spiagge siciliane i cadaveri cominciarono ad apparire a centinaia, davanti alla mancanza di iniziativa delle autorità, la società civile formò ONG di aiuto che sfidando la stessa legge italiana, escono al largo per raccogliere i naufraghi.

Oggi molte di queste navi di soccorso sono trattenute nei porti e il loro equipaggio è sotto processo. Il delitto è quello di salvare vite senza “rispettare le dovute norme di sicurezza” in navi dove “la quantità di servizi igienici è proporzionalmente inferiore al numero dei passeggeri raccolti” (come se fosse possibile sapere in anticipo quanti naufraghi saranno incontrati in mare), dove è stato constatato che “nell’imbarcazione risultavano più giubbotti salvagente della quantità dei passeggeri”. Oggi solamente la nave di Open Arms – la ONG fondata in seguito alla tragedia umanitaria di Bodrum, in Turchia, quando i gommoni dei migranti affondarono uccidendo decine di persone, tra cui un bambino con la maglietta rossa, la cui immagine, sdraiato senza vita in riva al mare, ha fatto il giro del mondo – è presente in pattuglia sulle rotte del Mediterraneo. Impedire l’azione delle navi di soccorso significa eliminare e ridurre al silenzio i testimoni di uno dei più grandi crimini in corso in quello spazio di mare tra il nord Africa e il sud d’Italia, uno dei maggiori crimini contro l’umanità del nostro tempo. Sei mesi.

È come se la voce avesse occupato tutti gli spazi possibili, come se il grido uscisse dalle mani, dalle braccia, della gambe, della contorsioni sul pavimento della barca che la salvò dall’acqua. Il gommone gonfiabile si è appena squarciato. A cadere in mare sono più di cento. Ho perso il mio bambino, ho perso il mio bambino. Il salvataggio continua, le persone raccolte delle acque sono vive al sicuro sulla nave. Nell’infermeria, la madre disperata abbraccia il sua piccolo che i medici cercano di rianimare. Sembra che migliori, legato a un respiratore automatico incontra ancora una volta il calore della madre che gli sussurra la sua felicità di poterlo abbracciare. All’improvviso le condizioni del bambino si fanno critiche e il sua affaticato cuore, dopo aver respirato la sabbia del Sahara, dopo aver sopportato i maltrattamenti dei trafficanti di uomini, dopo aver ingerito acqua salata, il suo piccolo cuore cessa di battere.

Youssef, sei mesi di vita, muore naufrago. Muore nel Mare Nostrum, la più grande frontiera dell’umanità, dove il cinismo del Nord blocca la speranza del Sud del mondo. La frontiera che milioni di migranti del nostro tempo considerano come la porta della nuova America, dove trovare lavoro e prosperità; quella stessa Merica sognata dai primi migranti venuti dal sud d’Italia e disposti a lasciare tutto, a rischiare la vita per provarci.

Nel cimitero dei migranti sull’isola di Lampedusa riposano decine e decine di persone senza nome trovate nel corso di questi ultimi anni, galleggiando in mare, cadute dai barconi e buttate in acqua da trafficanti di uomini. Riposa in pace, Youssef, piccolo migrante, riposa in pace.