La crisi sanitaria da Covid-19 ha affrontato anche la condizione pessima delle carceri, il sovraffollamento e i temi legati alla violazione dei diritti umani. Da marzo a maggio ci sono state molteplici proteste da parte dei detenuti per l’insostenibile condizione igienica delle prigioni che ha portato all’accensione di veri e propri focolai di Covid-19.

Tra i molti che erano intervenuti nel dibattito vi fu anche il magistrato Livio Pepino che addirittura fatto appello per un indulto per reati minori e un rinvio della pena per molti altri, in modo da ridurre la presenza di persone nelle carceri per evitare focolai ed un collasso della situazione sanitaria, aspettando dunque la fine dello “stato d’emergenza”. Ovviamente il suo appello non è stato ascoltato e non si è fatto luce sugli episodi di violenza nelle carceri da parte delle guardie penitenziarie in quel periodo. Non solo! Chi si è azzardato a criticare la situazione è stato perseguitato. Tra il 12 e il 13 maggio 2020 è scattata la cosiddetta “Operazione Ritrovo” che tra Bologna, Milano, provincia di Firenze ed altre città d’Italia ha portato all’arresto di circa dodici anarchici attivi nel movimento abolizionista del carcere e nella Rete Anti-carceraria Bolognese. Sono anche state perquisite tutte le abitazioni degli indagati, nonché lo spazio di documentazione anarchico Il Tribolo. Sulla stampa nazionale gli attivisti sono stati definiti “anarcoinsurrezionalisti” o addirittura “terroristi che volevano sovvertire l’ordine democratico dello Stato”. Poco dopo sono stati liberati perché non vi erano prove e, a quanto pare, sono stati colpevoli di denunciare che il Covid-19 non ha posto fine alla repressione nelle carceri.

È di pochi giorni fa la notizia della denuncia da parte di cinque detenuti per violenze e “pestaggi di massa” al Carcere Sant’Anna di Modena. Sono i cinque detenuti che furono presenti durante la strage in cui, l’8 marzo di quest’anno, morirono 13 persone durante la rivolta 1 in piena pandemia. Raccontano in un esposto rivolto alla Procura di Ancona di un “pestaggio di massa” e di soccorsi negati ai loro compagni di cella che stavano male per avere ingerito farmaci. Una ricostruzione che somiglia molto a quella resa ad agosto da altri due reclusi attraverso altrettante lettere spedite all’Agi.

In Procura è stata aperta un’indagine per omicidio colposo a carico di ignoti. I firmatari, che indicano i nomi dei loro difensori, hanno consegnato all’ufficio matricole del carcere di Ascoli l’esposto destinato ad Ancona, procura competente per territorio, in cui domandano di essere sentiti dai magistrati per contribuire a “fare chiarezza” su quanto accadde quel giorno. A margine della denuncia, i familiari e gli avvocati dei detenuti hanno fatto presente che, dopo la presentazione del documento, i 5 sono stati riportati nel carcere di Modena. Dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria arriva un “no comment”, mentre fonti investigative assicurano che i cinque “non sono indagati e nemmeno sono stati sentiti a Modena”.

Un capitolo a parte è dedicato alla vicenda di Salvatore Piscitelli, il 40enne sulla cui morte i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era rinchiuso prima del Sant’Anna, avevano chiesto “la verità” in una lettera resa pubblica a giugno. Nella lettera si legge: “Il detenuto Piscitelli, già brutalmente picchiato presso la casa circondariale di Modena e, durante la traduzione, arrivò presso la casa circondariale di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti. Tutti ci chiedemmo come mai il dirigente sanitario o il medico che ci aveva visitato all’ingresso non ne avesse disposto l’immediato ricovero in ospedale. Tutti facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna” . La ricostruzione dei cinque detenuti su quanto sarebbe accaduto al Sant’Anna, tutta da verificare nell’ambito delle indagini in corso, è molto cruda. Dichiarano “di aver assistito ai metodi coercitivi messi in atto da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Ossia l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo. L’aver caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti”.