Il suono di “Fly Me To The Moon“, passato alla storia nella versione di Nat ‘King’ Cole e Frank Sinatra, mi trasporta nel tempo, fino a qualche angolo di Chicago negli anni 50. Poteva pure essere Londra o Dublino, ma io ero a Buenos Aires, nella piccola rua 25 de Mayo, dove ero arrivato dopo aver disceso lentamente la Avenida Rivadavia.

La pioggia di fine autunno, il cigolare delle pesanti porte di legno, me li ricordai solo anni dopo, con la nostalgia di quei giorni. Quando, fuggendo dal freddo, sono entrato nel bar Seddon, avevo un biglietto di raccomandazioni in mano per Juan – o “John”, come gli piaceva essere chiamato il proprietario di quel miscuglio di antiquariato e ristorante. L’entrata era stretta e bisognava girare intorno a un vecchio piano a muro, c’erano alcuni tavoli antichi. Le pareti, stracolme di scarabocchi e messaggi. Vicino al porto, vicolo di mare di marinai, custodiva segreti e confessioni di amori perduti e lamenti.

Il suono del piano, l’assolo di sassofono di un uomo nero, alto e magro e alla fine, mi aspettava di tutto quella notte. John era stato sbrigativo e poco amichevole al telefono: “hai bisogno di un lavoro? Vieni alle 11, non mancare”. Ero un “beccamorto” dei fine settimana, non sapevo niente di bevute, ma lui fu molto educato e paziente. Mi insegnò a preparare drink secondo i colori e a misurare le quantità nei bicchieri con un dito: “Tu non bevi? – ottimo – il mio ultimo cameriere beveva di tutto, mi dava solo problemi, disse scherzando. Con gli anni, finii per dimenticare i nomi dei drink, mi è rimasto nella memoria solo il “tia Maria”, un milk shake alcolico composto, se non mi sbaglio, di gelato alla crema, caffè e due dita di un liquore marrone scuro. Mettevo il dito sulla parte esterna del bicchiere ed ecco fatta la misura della quantità alcolica. Ce n’era uno che era due dita di succo d’arancia e uno da una bottiglia verde. Ce n’era uno giallo che non poteva essere servito senza il bianco. E in questo arcobaleno alcolico io navigavo tutta la notte. All’inizio consultavo una lista, poi l’ho memorizzata.

Con John ho imparato anche a servire ai tavoli, a capire in mezzo ai suoni della tromba e del sax cosa dicevano i turisti russi e spagnoli. All’inizio degli anni 90 la città attraeva migliaia di europei e molti studenti e lavoratori brasiliani, come me, alla ricerca del sogno dell’università pubblica e di avventure. Il Plano Cavallo (piano di stabilizzazione monetaria effettuato in Argentina nel 1991 per combattere l’inflazione, N.d.T.) era ancora agli inizi e il pesos valeva come il dollaro, cosa che frastornava chi veniva da paesi che ancora vivevano in regime di iperinflazione. Una buona mancia poteva significare quasi lo stesso che un salario minimo in un paese vicino.

La scultrice ed elegante Georgina, la moglie di John, mi seguiva con gli occhi e sua figlia Pamela, della mia stessa età, mi dava i vassoi e mi indicava dove portarli. Era lei che mi aiutava anche a capire i complicati “lunfardos“, le espressioni del tango inserite nel castigliano argentino. Alle pareti, oltre ai vecchi messaggi, belle statue femminili, opere d’arte da tutte le parti, tulipani arancioni francesi – John era stato proprietario di un negozio di antiquariato e andava fiero del suo raffinato gusto inglese. Il posto era così tipico e romantico che era stato scelto l’anno prima per le riprese del film – oggi un classico – “El lado oscuro del corazón“, del regista Eliseo Subiela.

Ho imparato in fretta le mansioni e la settimana dopo ero felice mentre scivolavo tra i tavoli, danzando nella mia camicia floreale – come mi era stato raccomandato, visto che ero l’elemento tropicale del posto. John adorava il Brasile – una delle sue figlie ci viveva – e penso che mi abbia dato il lavoro perché ero sorridente e trovava in me una qualche allegria che non vedeva nei “portegni” (appellativo degli abitanti di Buenos Aires). “Domani facciamo bossa nova” mi disse felice. Da quel che mi disse, un gruppo di baiani avrebbe suonato la serata dopo. Ho contribuito all’allestimento con una bandiera del Brasile sul piano. Il giorno dopo, quando sono arrivato, i baiani stavano già suonando e, a differenza del clima che c’era fuori, piovoso e grigio, sembrava che tutto avesse colore e vita. Perfino il fumo delle sigarette ballava alla musica dei … aspetta però… questi non sono baiani.

In portoghese è molto difficile arrivare al livello di un madrelingua, e ho cominciato a sentire che i ragazzi non erano brasiliani. Mi sono avvicinato e uno dei vocalisti mi ha sussurrato “Siamo uruguaiani, ma non lo dire a nessuno, abbiamo bisogno di guadagnarci la vita…” Io ho sorriso e ho pensato, se sono arrivati fino a qui, non sarò io a interrompere questa carriera internazionale.

– Allora? Hai parlato con i tuoi compaesani? mi ha chiesto Georgina.

– Sì! ho sorriso a disagio. E la musica fece trascorrere la serata, passando da Caetano, Gil e qualcuna di Chico Buarque. A volte facevo finta di niente e dicevo all’orecchio a Pedro – nel verso “você abusou, tirou partido de mim” la “s” ha il suono di “z”, ok?

Alla fine della serata, Pamela rovesciava il barattolo delle mance e dividevamo a metà.

Era mentre ascoltavamo Fito Paez, “un vestido y un amor“, la musica che per me simbolizzava il locale. Molte volte mi sono visto lì seduto, con le luci soffuse, in mezzo a tante sedie, e mi sono immaginato quanti amori quel posto avesse visto nascere, quante passioni perdute, come nella canzone “Te vi, fumaba unos chinos en Madrid“, e venivo trasportato dentro a quei film in bianco e nero in cui le donne danzavano con i loro vestiti rossi, offuscate dal fumo dei sigari, seguendo la musica di un bolero.

A quell’epoca abitavo in un’adorabile pensione nel quartiere di Palermo, che aveva l’ingresso coperto di mosaici francesi, un edificio elegante, convertito in pensione per stranieri. È stato là, nella cucina collettiva, che ho imparato con una soubrette paraguaiana che “bife ancho” non si può mangiare se non si cuoce per bene, ma questa è un’altra storia. Non voglio parlare di mal di pancia, ma di tango. Il mio tragitto per il bar Seddon era in metropolitana e poi qualche isolato a piedi. Questo era tutto ciò che avevo bisogno di sapere a quei tempi. Era lavorare, dormire e sognare.

Il mio periodo come cameriere durò poco. All’epoca io stesso stavo sostituendo per ferie una giornalista corrispondente del Jornal do Brasil e mi furono assegnati dei lavori come la tournée di Madonna e Michael Jackson. La famiglia Seddon comprese che la mia priorità era scrivere e mi diedero un lungo abbraccio di commiato, dopo un lungo inverno di notti scaldate dal jazz.

Ho lasciato Buenos Aires subito dopo, nel 1994, e sono tornato a Rio. Dalla città meravigliosa sono partito per la mia avventura negli Stati Uniti. Anche da lontano, ho seguito le vicende del bar, tramite i giornali e qualche telefonata che facevo a John. L’ultima volta che abbiamo parlato, con quel vecchio e pesante telefono che stava sul bancone del bar, mi ha detto che i componenti della band degli U2 avevano portato “Tia Maria” con loro, così come aveva fatto Fito Páez con l’attrice Vanessa Redgrave. Negli stessi anni il bar era diventato anche set cinematografico, per “El muro del silencio“. Con mio grande piacere seppi che finalmente Caetano Veloso era stato lì in una serata di brasiliani e immaginai la disperazione della banda di “baiani” di Montevideo.

John non ha poi rinnovato il contratto di affitto e il bar si è trasformato in un angolo famoso di Sant’Elmo, dove ancora oggi è un punto di riferimento per la città, addirittura proclamato come patrimonio. È morto l’anno dopo, nel 2002 e Pamela ha assunto la direzione. Sono tornato là nel 2014, ma non ci siamo incrociati. Sono entrato lentamente nel Seddon e ho riconosciuto molti mobili e quadri.

Ho sorriso nel vedere la stessa scultura che c’era sul bancone – che bella, ancora con la stessa luce soffusa che scivola sulle curve di quel corpo femminile. Il bar era più arieggiato, senza le pareti scarabocchiate, ma aveva preservato il clima da antiquario. Mi ha ricordato molto il vecchio Juan e le notti d’inverno in cui scaldava i nostri cuori a quei tempi.

Un ragazzo alto, con una camicia bianca e pantaloni neri è venuto verso di me. “Ciao benvenuto. Conoscevi già il bar Seddon?”

Ho risposto con un sorriso. Ho riconosciuto quel saluto. “Sì, da tanto tempo” ho risposto. Per la prima volta, cliente di quel luogo magico della mia gioventù.

– Servite ancora il Tia Maria?

E giuro che in sottofondo c’era Fito Páez, “Te vi, te vi, te vi… yo no buscaba a nadie y te vi”.

 

Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza. Revisione: Silvia Nocera