Ieri attacco delle forze armate marocchine che sono uscite anche dal territorio che occupano illegalmente da 45 anni per entrare nella zona cuscinetto che li separa dalla Mauritania ed è gestita dall’amministrazione della Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi.

L’avevamo scritto qualche giorno fa : la situazione era a rischio. Da tre settimane il Fronte Polisario, il popolo saharawi, aveva attuato un’ennesima lotta nonviolenta, un blocco stradale, impedendo le esportazioni di merci dalla zona occupata alla Mauritania e al resto dell’Africa. Una provocazione? Certo. Cosa può fare un popolo inascoltato, abbandonato, umiliato, per farsi sentire?

O fa scoppiare delle bombe o crea del disagio, senza violenza, tale da provocare delle reazioni. Il popolo saharawi ha usato le armi per 16 anni, dal 1975 al 1991, da 29 anni non le usa, le ha fatte tacere, aspettando che venissero rispettati gli accordi firmati dalle parti.

Ieri mattina all’alba l’esercito marocchino ha riaperto il fuoco dopo tanti anni, il Fronte Polisario ha messo al sicuro tutti i manifestanti, cosa che non aveva potuto fare 10 anni fa a Gdeim Isik, e ha risposto al fuoco. Non si sa esattamente quanti morti ci siano stati, si parla di 12 soldati marocchini uccisi e più di 70 catturati, ma i dati non sono certi. Qualcuno grida già alla guerra, qualcosa si è rotto.

Ora: o la diplomazia internazionale si sveglia, si assume le sue responsabilità, o qualcuno alza la voce dicendo che non è più possibile prendere in giro un intero popolo, o si scatenerà l’ipocrisia di sempre che dice che non è giusto usare le armi, che ci spiace per i morti, che non vogliamo un’escalation, e si lascerà che si compia un massacro, un macello. Tutta la solidarietà internazionale si sta muovendo, certo senza le difficoltà del Covid sarebbero stati tanti i manifestanti sotto i consolati o le ambasciate marocchine. Bisogna accontentarsi di internet, dei telefoni, e martellare.

Si rischia l’incendio, il fuoco va spento subito, ma dando risposte certe, non basta né il “rammarico”, né “ripristinare il cessate il fuoco”, come dice il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres. E’ necessaria una data per un Referendum che un popolo aspetta da 29 anni.