Il 16 settembre del 2019 la fondazione Gimbe produceva un rapporto intitolato “Definanziamento 2010-2019 del Sistema Sanitario Nazionale”.
Il rapporto della fondazione Gimbe per bocca del suo portavoce ben prima dell’attuale emergenza sanitaria da Covid non andava per il sottile affermando a chiare lettere che: “Sanità pubblica cade a pezzi e si avvia in silenzio verso la privatizzazione. In 10 anni sottratti alla sanità pubblica 37 miliardi. “Servono fatti non solo parole. Senza un disegno politico sarà il disastro”.
L’allarme era già stato lanciato in precedenza più volte con altri rapporti dal tenore simile, il rapporto Gimbe 2019 a sostegno dell’allarme lanciato forniva tanti dati:
“Nell’ultimo decennio tutti i governi hanno attinto alla spesa sanitaria per esigenze di finanza pubblica, sgretolando progressivamente la più grande opera pubblica mai costruita in Italia. Il Servizio Sanitario Nazionale. Servono decisioni politiche e azioni immediate perché la repubblica possa nuovamente garantire il diritto alla tutela della salute”. E poi rivolgendosi allora al nuovo Esecutivo, il governo attuale: “Servono azioni concrete in tempi rapidi, non parole”.
Questo era l’appello nel 2019 di Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE rivolto all’attuale governo, che all’epoca del rapporto si era da poco formato.

Con l’esecutivo che si insediava con l’allora nuovo governo Conte Bis, prima dell’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza del 2019 e, soprattutto prima della stesura della Legge di Bilancio, la Fondazione GIMBE non a caso pubblicò il suo report sul definanziamento 2010-2019 del SSN, un documento chiave che aveva la funzione di stimare, al di là dei facili proclami, la reale entità delle risorse necessarie a rilanciare la sanità pubblica. Il Rapporto analizzava le ragioni della mancata stipula del Patto per la Salute denunciando già allora che si rischiava di compromettere le poche risorse aggiuntive per l’anno 2020-2021.

Dal report emergeva tutta l’imponenza del definanziamento pubblico negli anni 2010-2019, che ha visto impegnati tutti i governi a tagli considerevoli del SSN di modo da fronteggiare le emergenze finanziarie del Paese, riducendo drasticamente la spesa sanitaria, di fatto il capitolo di spesa pubblica più facilmente aggredibile.
Andando ai numeri:
– Il finanziamento pubblico è stato decurtato di oltre € 37 miliardi, di cui circa € 25 miliardi nel 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie ed oltre € 12 miliardi nel 2015-2019, quando alla sanità sono state destinate meno risorse di quelle programmate per esigenze di finanza pubblica.
(Quella che prosaicamente veniva chiamata spending review in pratica significava tagli su tagli al Servizio Sanitario Nazionale e non solo, a scuole, ai beni primari, a tutti i servizi rivolti alla persona)
– Il DEF 2019 ha ridotto ulteriormente il rapporto spesa sanitaria/PIL dal 6,6% nel 2019-2020 al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022.
– L’aumento del fabbisogno sanitario nazionale per gli anni 2020 (+€ 2 miliardi) e 2021 (+€ 1,5 miliardi) è subordinato alla stipula tra Governo e Regioni del Patto per la Salute 2019-2021, tuttora al palo.
– I dati OCSE aggiornati al luglio 2019 dimostravano già che l’Italia era di gran lunga sotto la media OCSE, sia per la spesa sanitaria totale (€ 3.428 vs € 3.980), sia per quella pubblica (€ 2.545 vs € 3.038), precedendo solo i paesi dell’Europa orientale oltre a Spagna, Portogallo e Grecia. Nel periodo 2009-2018 l’incremento percentuale della spesa sanitaria pubblica si è abbassato al 10%, rispetto a una media OCSE del 37%.
– Tra i paesi del G7 le differenze assolute sulla spesa pubblica già nel 2019 sono incolmabili: ad esempio, se nel 2009 la Germania investiva “solo” € 1.167 (+50,6%) in più dell’Italia (€ 3.473 vs € 2.306), nel 2018 la differenza è di € 2.511 (+97,7%), ovvero € 5.056 vs € 2.545, ovvero il doppio dell’Italia

-Nel periodo 2009-2018 l’incremento della spesa sanitaria pubblica è stato solo del 10% contro la media OCSE del 37%. Risultato: siamo scesi a 3,2 posti letto ogni mille abitanti, contro i 6 della Francia e gli 8 della Germania.
La Fondazione Gimbe nel suo rapporto aveva calcolato che nell’ultimo decennio il grosso dei tagli fosse avvenuto tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), con circa 25 miliardi di euro trattenuti dalle finanziarie di quel periodo, mentre i restanti 12 miliardi sono serviti per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte).

Ma cerchiamo di andare ancora più indietro per capire meglio il quadro completo di questo processo che ha visto la cannibalizzazione della salute pubblica, sacrificata per fare fronte ai vari tagli richiesti da quella che ancora adesso scorrettamente viene chiamata finanza “pubblica”. Una finanza che di pubblico non ha più niente, perché da decenni ormai è sotto il controllo privato, compresi l’emissione e il rinnovo dei prestiti ai vari Stati, così come la creazione di valuta europea con l’euro. Perché è pur vero che quest’ultime siano gestite e organizzate dalla BCE, il cui nome potrebbe far credere ad una istituzione finanziaria pubblica a carattere europeo, ma che in realtà a sua volta è formata da quote in percentuali diverse, che fanno capo a banche un tempo nazionali e a controllo statale, esercitato poi dai vari Stati europei, il problema è che da tempo quest’ultime non son più sotto il controllo pubblico, bensì in mano a gruppi privati, i quali, per tramite la Banca Centrale Europea, la quale percentualmente è ripartita tra i vari affiliati, esigono dagli Stati, ovvero dalla popolazione, il pagamento di interessi da vero strozzinaggio.

Purtroppo per noi,  le varie manovre che negli anni hanno attinto al welfare, non sono servite ad intaccare un solo euro del debito stesso, bensì quei tagli che adesso paghiamo con il disastro del SSN così come il naufragio della scuola pubblica, sono serviti soltanto a pagare gli interessi degli interessi che questo debito ha maturato.
Un debito che aumenta a dismisura e che non potrà mai essere colmato, né dalla nostra generazione, né da quelle che verranno,  ma solo forse parzialmente tamponato come è avvenuto negli ultimi decenni procedendo a manovre finanziarie che hanno rappresentato imponenti tagli, alla sanità pubblica, alla scuola, alla cultura, al welfare sociale, ai servizi alla persona, ecc.

Tornando agli effetti sul nostro Servizio Sanitario Nazionale, che ora sotto la spinta di questa emergenza sanitaria, stiamo ben vedendo e toccando con mano, per riportare il disastro a dei dati numerici e non solo ad una percezione, non importa nemmeno più andare a citare i lavori prodotti da alcune fondazioni benefiche o dalle ONG che si occupano della salute delle persone, è sufficiente rifarsi ai dati prodotti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che afferma che l’Italia in totale oggi ha a disposizione 164mila posti letto per pazienti acuti (272 ogni centomila abitanti), dato calato del 43% dal 1980 a oggi.

I posti in terapia intensiva sempre secondo OMS sono invece poco più di 3.700, che diventano 5.300 (8,4 ogni 100mila abitanti) se consideriamo anche le strutture private.
L’Oms, proprio sulle TI ha calcolato che dal 1997 al 2015 è stato effettuato un taglio del 51% dei posti letto per casi gravi e per la terapia intensiva che sono passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 272 attuali. Da segnalare oltretutto che fino a qualche settimana fa, per la terapia intensiva ce n’erano soltanto 5.343 ma, dopo l’emergenza coronavirus, allestite in fretta e fura sono salite a 8.370.

Nell’ultimo decennio in particolare c’è stata un ulteriore accelerazione di questi tagli: oltre 70.000 posti letto persi, 359 reparti ospedalieri chiusi, 46mila dipendenti sanitari in meno nel complessivo, 8mila di questi medici e 13mila infermieri. Il settore dei medici di famiglia, in dieci anni, ha subìto una riduzione del 6,8% (-3.230 in termini assoluti). Ancora peggio è andata ai medici che operano nella guardia medica – 10,1%.

A confermarlo fu anche il “Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale” del Centro Studi Nebo. I numeri presentavano già due anni fa l’esatta misura dell’emergenza sanitaria: dai 530.000 posti letto del 1981 (di cui 68 mila dedicati all’area psichiatrica e manicomiale) ai 365.000 del 1992, dai 245.000 del 2010 fino ai 191 mila del 2017, ultimo dato disponibile. Significa una riduzione vicina ai due terzi.
Nel 2025 poi abbiamo in previsione 52.500 medici che andranno in pensione contro i 35.800 nuovi medici che arriveranno tra il 2018 e il 2025 che non saranno assolutamente in grado di coprire il fabbisogno della sanità pubblica territoriale.
In previsione futura sul fronte del personale ospedaliero le cose non vanno certo meglio, al contrario, il sindacato dei medici Anaao-Assomed con un recente studio ha calcolato che entro il 2025, tra medici e dirigenti sanitari, andranno a casa 70 mila dipendenti, degli attuali 100 mila e 500. “È urgente aprire una stagione di assunzioni nella sanità, eliminando il blocco della spesa per il personale introdotto nel 2010 dal governo Berlusconi-Tremonti”.

Ora, con l’emergenza coronavirus in atto, il governo si è trovato obbligato ad assumere d’urgenza 20.000 tra medici e infermieri che però, non hanno ancora superato l’esame di Stato e che ovviamente sono carenti di formazione operativa ed esperienza pratica.
Pare perciò sia dovuta servire una pandemia per capire il livello di disastro che si è creato nel Servizio Sanitario Nazionale dopo decenni di tagli al grido di spending review.

Uno Stato sociale che sta sparendo. Lo hanno chiamato taglio del welfare, così che in inglese la macelleria sociale si percepisse meno.
Sotto la spinta dell’emergenza economica, in pieno clima da “spending review”, i vari governi che si sono succeduti da sinistra a destra, hanno deciso di usare l’accetta e imporre in quindici anni un taglio orizzontale del 25% delle uscite per tutte le Asl e per tutti gli ospedali (i tagli sono stati imposti con le varie manovre finanziare e poi ulteriormente reiterati con la legge 65 del 2012 sulla “spending review”).
Il provvedimento legislativo del 2012 ha avuto un effetto devastante che ha ulteriormente penalizzato i distretti locali già sottofinanziati e inefficienti, al tempo stesso è stato un provvedimento incapace di eliminare lo spreco in quelli più ricchi.
Ogni singola manovra o provvedimento partorito negli ultimi 30 anni in materia di sanità pubblica è andato a pesare direttamente sui cittadini.

Il covid e l’aggravarsi dell’emergenza sanitaria che ne è conseguita ci ha messo di fronte all’evidenza di abbandonare la credenza in cui a lungo ci siamo cullati, dormendo sonni tranquilli, su quella che un tempo si diceva essere il Servizio Sanitario Nazionale migliore d’Europa, sì era vero, ma lo era al passato, ora invece siamo sull’orlo del precipizio, e il bello è che ne guardiamo il fondo come ipnotizzati e storditi, credendo che passerà, che sia solo una brutta parentesi, che tutto andrà bene, che tutto tornerà come prima, che questo disastro sia solo dovuto all’emergenza coronavirus, quando in realtà, la buca profonda in cui stiamo cadendo è stata scavata da tempo.

Da dire infine che, con la delocalizzazione del SSN affidato in gran parte alle Regioni, quello che un tempo era chiamato Sistema Sanitario “Nazionale” di fatto purtroppo non esiste più.
L’Italia nella sanità non è uno Stato unitario. Il servizio sanitario nazionale ricorda invece una cartina pre-Unità d’Italia con stati e staterelli, piccole repubbliche e granducati. Infatti, nonostante le due grandi riforme del 1992-1993 e del 1999, nonostante il tentativo, che possiamo definire fallito, di attuare una sorta di federalismo sanitario, ad oggi non esiste quasi più una sanità pubblica italiana.
Ne esistono invece centinaia. Tante quante sono le regioni e le 225 “aziende” sanitarie locali (trasformate da Unita in Aziende non a caso) in cui sono divise, e le 1488 strutture da esse governate che erogano prestazioni ai cittadini tra ospedali, case di cura, ambulatori ecc.
Ognuno in questo contesto fa come gli pare, seguendo logiche politiche e di spesa autonome, che però ormai son tutte volte alla massimizzazione non della salute delle persone ma del profitto, affidando arbitrariamente appalti e subappalti, spesso senza gara pubblica, delocalizzando o smantellando strutture un tempo considerate d’eccellenza , riducendo il servizio sanitario territoriale, creando cattedrali nel deserto con l’acquisto di miliardi di attrezzature che poi non possono essere usate per mancanza di personale, e che vengono perciò date in concessione d’uso gratuito alla sanità privata, oppure all’intramoenia e alla libera professione.
Una torta quella del servizio sanitario nazionale pubblico che prima è stata smembrata, e poi è diventata oggetto degli appetiti di più soggetti.
A oggi siamo arrivati al punto in cui, già prima dell’emergenza covid l’espletamento delle cure ordinarie era in evidente sofferenza, ed ora che si stanno adibendo ad area Covid interi reparti ospedalieri che fino ad oggi erano dedicati a cure specifiche, come, ad esempio, le patologie oncologiche o quelle cardiovascolari, si viene a creare così un ulteriore danno che va a sommarsi a quello prodotto dallo stesso Covid.

Particolarmente significativi i dati che ci provengono da un’analisi del primo periodo di lockdown da marzo a maggio che vedeva le morti dovute a patologie cardiovascolari triplicarsi in quei mesi, passando da un incidenza globale della letalità del 4,2% al 13,1%, così come oggi si scopre da uno studio dell’università della Sapienza di Roma che sempre in quel periodo di lockdown, il numero di bambini nati morti è triplicato a causa delle visite di controllo ritardate o addirittura saltate.
“Per ricostituire un Sistema Sanitario nazionale efficace e funzionale alla salute delle persone o comunque per salvaguardare quel che di esso c’è rimasto, per prima cosa occorre una forte presa di coscienza del disastro di fronte a cui ci veniamo a trovare” così affermava a ragione il Sindacato dei Medici già nel 2019, che poi all’interno di un appello all’epoca lanciato al governo Conte bis che si stava insediando chiedeva di:
– Prendere reale consapevolezza che il rilancio della sanità pubblica più che parole richiede volontà politica, investimenti rilevanti, un programma di azioni a medio-lungo termine e innovazioni di rottura.
– Rilanciare la mozione già elaborata dalla Commissione Affari Sociali della Camera, che richiede al Governo di adottare iniziative per mettere in sicurezza le risorse per la sanità pubblica.
– Definire un piano di rifinanziamento del SSN ciononostante le criticità della finanza pubblica.
– Introdurre in maniera tempestiva e integrata tutte le azioni necessarie per aumentare il ritorno in termini di salute delle risorse investite in sanità.

Ora di fronte ad un disastro che più volte era stato annunciato e che adesso l’emergenza covid ha messo in luce in modo indiscutibile ed evidente, non servono più vuote dichiarazioni d’intento, se davvero si vogliono salvare le vite delle persone, se si ha a cuore la salute come bene primario, serve una presa di posizione chiara che non preveda soluzioni di ripiego, o si sta dalla parte della gente e della tutela della salute, oppure si sta dalla parte dell’alta finanza con le sue ricette “miracolose” di tagli e controtagli, di cui adesso, forse, ci stiamo davvero rendendo conto per la prima volta di che cosa queste ricette neoliberiste producano in termini sociali, così come nel costo di vite umane, e di regresso a tutti i livelli.