Sono ancora in guerra. Altissima tensione nel Caucaso fra Armenia e Azerbaigian: si combatte nella regione autonoma del Nagorno Karabakh, dove l’esercito azero ha prima bombardato le postazioni delle forze indipendentiste armene, che avevano attaccato durante la notte, e poi ha lanciato una controffensiva. La Russia ha fatto appello ad Armenia e Azerbaigian per un “cessate-il-fuoco immediato”. La Turchia condanna con forza l’attacco armeno contro l’Azerbaigian (fonte Ansa).

Le due repubbliche ex sovietiche stanno riaccendendo il conflitto e prevedere come evolverà è difficile, come sempre si levano le voci da più parti, anche papa Francesco lo ha fatto domenica 27 settembre durante l’Angelus, di ritornare al dialogo. Il Dialogo, termine composto da dià, attraverso e logos, discorso, è una parola lunga millenni, di cui il filosofo Socrate ne ha dato un significato profondo e di cura interiore. Il dialogo nasce come confronto verbale, ma per avere efficacia deve mettere in campo le idee. Il dialogo non è un parlare per parlare, ma un passare attraverso l’altro in senso metaforico, è un “perforare” simbolico e pacifico per incontrarlo.

Nel caso della guerra le idee dei contendenti sono chiaramente opposte, a volte inconciliabili e trovare un punto di incontro diventa complicato. Le guerre insanguinano il pianeta da sempre e al posto di dialogare si cercano sempre nuove e moderne tecnologie per combattere e tentare di vincere il nemico; chi soccombe a tanta ferocia sono però solo i popoli, i cosiddetti civili, che subiscono morte e distruzione senza trarne alcun vantaggio. Ma l’uomo, con la sua corteccia cerebrale così evoluta rispetto a quella di tutti gli altri abitanti del pianeta, non potrebbe trovare una soluzione a questa piaga distruttiva del vivere civile?

Nel 1600 il filosofo Thomas Hobbes ci mise in guardia con la celebre affermazione​ homo homini lupus, l’uomo è lupo per l’altro uomo: nessuno ci è amico e se può soffiarci l’osso lo fa senza pensarci due volte, senza sentirsi in colpa perché ancor prima i Latini ci insegnarono mors tua vita mea;​ la legge della giungla ci è sempre accanto, l’istinto di sopravvivenza ci permette di andare avanti senza voltarci indietro. Sopravvivere è il nostro compito e lo perseguiamo senza sensi di colpa. Questo sarebbe giusto per la legge della natura: badare a noi stessi, alla nostra vita e a quella dei nostri figli. Il problema è che gli uomini vanno oltre, non si fermano alla dura lotta per sopravvivere nel modo migliore possibile. Gli umani con l’evoluta corteccia cerebrale vogliano sempre di più e la legge di sopravvivenza si trasforma in lotta di conquista da cui nascono le guerre.

La speranza che si dialoghi, a partire dal ri-acuirsi del conflitto nel Caucaso, è forte, ma la speranza da sola non basta, essa è un’attesa fiduciosa, uno stato dell’anima ottimista che da solo non risolve il problema. Si rende invece necessario educare alla nonviolenza e quando, sfiduciata, penso che tutto sia perduto per l’umanità mi torna alla memoria il Mahatma Gandhi che con il solo strumento della nonviolenza applicata alla disobbedienza civile scacciò gli Inglesi dall’India. È possibile vivere in modo nonviolento? Sì, se si osserva la vita nei suoi diversi aspetti, non si può pensare di riuscirci se si continua a trattare crudelmente gli animali, ad inquinare senza tregua, ad essere violenti a partire dagli sguardi feroci verso chi non la pensa come noi. La violenza di cui la guerra è massima esponente si argina, nel tentativo di superarla, comprendendo che si possono ottenere risultati solo con l’uso della parola di cui noi umani siamo gli unici detentori. Il dialogo non è solo un vocabolo, ma una modalità per vivere in pace nel Mondo.