Uno degli effetti più paradossali e meno esplorati delle misure di lockdown, imposte nel tentativo di contenere la diffusione del contagio da coronavirus, è quello che si è scatenato sull’universo della solidarietà internazionale e, in particolare, della cooperazione internazionale. Per un verso, il mondo ha scoperto l’importanza cruciale della cooperazione tra i popoli e gli Stati; l’Italia stessa, uno dei Paesi al mondo più colpiti dal contagio, ha beneficiato di assistenza medica e di aiuto umanitario proveniente dai più diversi Paesi del mondo, dalla Russia alla Cina, passando per la Serbia e l’Albania, e Paesi come Cuba, da sempre in prima linea nella solidarietà internazionale e nell’amicizia tra i popoli, sono stati veri protagonisti mondiali, con il supporto offerto e le brigate mediche impegnate, nell’aiutare i popoli del mondo a fronteggiare la pandemia. Un vero esempio, per il quale la campagna internazionale per il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace ai medici cubani e, in particolare, alla Brigata Medica Henry Reeve, merita davvero tutto il nostro appoggio e sostegno.

Per l’altro verso, tuttavia, proprio il lockdown ha letteralmente messo in ginocchio, tra i comparti sociali e produttivi più colpiti, proprio il mondo degli operatori umanitari e della cooperazione internazionale. Una delle ultime ricerche pubblicate dalla DEVEX, basata su un campione di 580 operatori e operatrici umanitari e internazionali, di 162 diversi Paesi del mondo, ne fornisce una fotografia davvero eloquente e drammatica. Alla luce dell’indagine svolta, il 60% degli intervistati si ritiene preoccupato che la pandemia possa significare letteralmente la fine dell’organizzazione per la quale opera; all’interno di questo campione, quasi il 40% degli intervistati in Africa e il 33% di quelli in Medio Oriente si dichiarano addirittura «molto preoccupati».

Non solo: se da un lato vi è estrema preoccupazione rispetto alla continuità di un lavoro, per definizione, “a progetto”, dall’altro, proprio quando ve ne sarebbe maggiore bisogno, si è assistito, e in buona parte si continua ad assistere, ad una riduzione dei finanziamenti nella cooperazione per lo sviluppo. Circa il 50% degli intervistati,tra quelli operanti in MedioOriente e,con la stessa percentuale,quelli operanti inAfrica,dichiarano che l’organizzazione per la quale operano ha subito un taglio dei finanziamenti proprio a causa delle misure del lockdown, o comunque associate al contenimento della pandemia, ma anche nel Nord del mondo la percentuale è consistente, con il 40% degli operatori in Europa e il 35% degli operatori in America del Nord. È molto significativa la percentuale di operatori e operatrici intervistati che si ritiene «molto preoccupato/a» in merito alla possibilità che la propria organizzazione possa in qualche modo “sopravvivere” alla pandemia.

Proseguendo tra le cifre, il 54% degli operatori basati in Africa dichiara di avere già perso il lavoro o comunque di conoscere direttamente colleghi o colleghe che hanno già perso il lavoro, e ancora il 35% si dichiara «molto preoccupato» di perdere il lavoro proprio a causa delle misure legate alla pandemia. Tra le preoccupazioni più diffuse, il rischio che, concentrati sulle misure interne, i Paesi possano tagliare i fondi per la cooperazione; il rischio che la propria organizzazione umanitaria o di cooperazione internazionale non riesca a sopravvivere più di alcuni mesi o al massimo un anno in condizioni così difficili; il rischio di non poter più garantire la continuità delle attività umanitarie o di cooperazione, proprio a causa della gravissima situazione economica. Così come diversi programmi sono stati sospesi, molti lavoratori e lavoratrici hanno visto svanire il proprio lavoro, nella maggior parte dei casi per motivazioni legate al taglio dei finanziamenti, ma in alcuni casi anche per l’assenza di una chiara strategia circa la prosecuzione o l’implementazione delle attività umanitarie e di cooperazione. Non solo, per gli operatori e le operatrici che hanno avuto la fortuna o la possibilità di continuare a lavorare, spesso si deve fare i conti con consistenti riduzioni salariali, con personale di ONG basate in Africa e in Asia che ha dichiarato di avere già subito un taglio del salario, con riduzioni che in alcuni casi arrivano sino al 40%.

Posti di lavoro sono stati “bruciati”, evidentemente, anche in Europa e in America del Nord; tra gli europei, il 18% si dichiara «molto preoccupato» per il proprio lavoro, tra statunitensi e canadesi il 7% condivide tale preoccupazione. Tendenze neo-protezionistiche, chiusura delle frontiere, limitazioni ai viaggi sono tra i motivi che stanno “restringendo” l’area di impegno della cooperazione internazionale. Annoso resta il problema degli stanziamenti, con l’obiettivo dello 0,70% del reddito lordo da destinare all’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) sempre più lontano (l’Italia è appena allo 0,24%). Riconsegnare alla solidarietà internazionale il posto fondamentale che merita tra le misure di intervento globale dovrà sempre più essere uno dei compiti essenziali, per l’agenda degli impegni della prossima «fase 3», dando rinnovato slancio alla cooperazione internazionale.