Ponendo fine a una controversa crisi politica, il presidente della auto-proclamata repubblica del Kosovo, Hashim Thaçi, lo scorso 30 Aprile ha dato l’incarico ad Avdullah Hoti, espressione di uno dei due principali partiti della coalizione di governo uscente, la LDK, di formare il nuovo governo.

Si tratta di una situazione del tutto peculiare: l’LDK, come accennato, era partner di governo nell’esecutivo uscente, il cui primo ministro, Albin Kurti, è il leader della formazione risultata primo partito nelle ultime elezioni, Vetëvendosje; fortemente osteggiata proprio da Vetëvendosje, la nuova maggioranza guidata dall’LDK si regge sull’alleanza con uno dei due principali partiti che erano all’opposizione, la AAK dell’ex premier Ramush Haradinaj, insieme con NISMA, e l’appoggio della Lista Serba, che esprime la rappresentanza dei Serbi del Kosovo. Una situazione del tutto particolare, dunque, quasi una «conventio ad excludendum» nei confronti del partito vincitore delle ultime elezioni, senza il quale si costituisce una nuova maggioranza alternativa; tuttavia legittima, dal punto di vista costituzionale, dal momento che la costituzione dell’auto-proclamata repubblica ne organizza la forma di governo secondo l’architettura tipica di una repubblica parlamentare, ed è quindi in parlamento che si formano le maggioranze ed è sulla fiducia del parlamento che si reggono i governi.

Nella dichiarazione raccolta dalla stampa kosovara, il presidente dell’auto-proclamata repubblica, Hashim Thaçi, ha confermato che «in questa situazione anomala, la legittimità dell’attuale governo è stata messa in discussione dal voto della mozione di oltre due terzi dei deputati. D’altro canto, è mio dovere, in qualità di Presidente, assicurarmi che le istituzioni funzionino regolarmente. La mozione era conforme alla costituzione, avanzata sulla base della volontà dei deputati e in modo conforme all’ordine democratico. Tali circostanze sono regolate dalla costituzione e non possono essere considerate straordinarie».

Proprio in virtù della formazione in parlamento di una nuova maggioranza, Thaçi ha quindi conferito un mandato ad Avdullah Hoti per formare il nuovo governo: «tutte le parti pensano che il Kosovo dovrebbe avere un nuovo governo, ad eccezione di un solo partito [in riferimento a VV]. Dopo le lettere inviate al leader della LDK, ho ricevuto una lettera da Isa Mustafa, leader della LDK, che soddisfa i criteri per la formazione del nuovo governo, assicurando la maggioranza».

Avdullah Hoti, premier in pectore, incaricato della formazione del nuovo esecutivo, eredita così una situazione assai controversa: non solo perché fa seguito alla crisi politica, condizionata anche da pressioni internazionali e scandita da rumors circa piani segreti di accordi con la Serbia per il rilancio del processo negoziale, ma anche perché dovrà affrontare la crisi gravissima che la regione sta attraversando ed una prevedibile insofferenza da parte dell’opinione pubblica, proprio nel momento più delicato in cui nuovi scenari potrebbero aprirsi per la regione e per gli interi Balcani.

Secondo alcune letture che hanno accompagnato gli sviluppi della crisi, si annuncia la nascita di un governo che, per quanto costituzionalmente legittimo, nascerà in crisi di fiducia nei confronti dell’opinione pubblica, nonché di una disaffezione da parte di settori dell’elettorato che avevano salutato, all’indomani della precedente tornata elettorale, la nascita di un governo della nuova formazione politica VV, e non della solita diarchia LDK-PDK, come un segnale di novità e una promessa di cambiamento. Secondo altre analisi potrebbe trattarsi, invece, di un governo a termine, se non, mutuando le categorie della politica italiana, di un vero e proprio «governo di scopo», necessario per rilanciare il dialogo con la Serbia e, forse, sotto la regia di Hashim Thaçi, pilotare la regione verso un nuovo accordo con la Serbia stessa, ovvero, come si legge nella stampa locale, «un doloroso compromesso con la Serbia». Ipotesi, questa, rafforzata da recenti dichiarazioni di una figura di primo piano della LDK, Lutfi Haziri, secondo il quale nel dialogo con la Serbia, il Kosovo dovrà ottenere qualcosa dalla Serbia, alludendo ad una intesa con Belgrado per un seggio del Kosovo alle Nazioni Unite, ma anche dare qualcosa alla Serbia, adombrando il fatto che «non si potrà ottenere il 100% delle nostre richieste».

Esattamente la stessa cosa ribadita, non solo recentemente, e a più riprese, dal presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Ciò che il Kosovo potrebbe essere chiamato a dare in cambio è qualcosa di cui si discute in vari ambienti diplomatici: una contropartita sotto forma di scambio di territori tra la Serbia e il Kosovo per linee etniche. Con il Nord del Kosovo, a maggioranza serba, alla Serbia, e la Valle di Preševo, nel Sud del Serbia al confine con la regione, a maggioranza albanese, al Kosovo. In una recente intervista ad euronews, il premier uscente, Albin Kurti, ha confermato la propria contrarietà: «Perché accettare di perdere territorio? Non credo che si possa accettare, abbiamo pagato prezzi altissimi, abbiamo sofferto molto, … perché dovremmo continuare così? Queste sono le pressioni della Serbia». Pressioni non solo dalla Serbia, forse. Secondo Filip Milačić (adviser presso la missione OSCE in Montenegro), «la Serbia deve trovare un accordo con il Kosovo che, con ogni probabilità, potrebbe comportare un suo riconoscimento in forma diretta o indiretta. Tuttavia il riconoscimento del Kosovo, in qualsiasi forma, è estremamente impopolare nell’opinione pubblica serba. Molte analisi hanno mostrato che mettere al centro la questione nazionale non è solo una scelta dell’élite politica, dal momento che la maggioranza dei Serbi condivide lo stesso punto di vista». «Ivica Dačić ha ribadito molte volte che l’attuale amministrazione statunitense è più sensibile alla visione serba del futuro dei Balcani di qualsiasi altra amministrazione precedente e la Serbia dovrebbe cogliere questa opportunità». Opportunità. Anche al prezzo di una ulteriore separazione etnica?