C’è un confine molto grande tra l’informazione e la comunicazione che, però, c’è chi vuol farlo diventare davvero sottile.
Fino a 20 anni fa tutto era molto più facile: la comunicazione era quella che si faceva nel bar della piazza o in casa a tavola.
L’informazione, invece, era (ed è) quella cosa mediata da un giornalista, che per professione dà forma alle cose. Poi è arrivato il web, che ha creato i blog: diari, in sostanza, con l’obiettivo di poter raccontare emozioni e impressioni del mondo che cambia. La facilità della realizzazione del blog, però, ha permesso allo stesso tempo una distorsione del sistema. Dunque, invece di raccontare emozioni, si è passati a scrivere notizie. Molti giornali, oggi, sono realizzati con piattaforme nate per fare blog. Ecco qui la prima frattura tra canali informativi e comunicativi. Nel corso del tempo i blog sono cresciuti e sono diventati strumenti di diffusione di notizie, più o meno in tempo reale.
A combinare il ‘guaio’ hanno pensato, invece, gli utenti dei social network: le prime reti sociali erano, davvero, il luogo di confronto di opinioni e di espressioni varie. Il danno è scoppiato quando si è iniziato anche lì a condividere informazioni. Ecco il problema: un singolo lettore può capire cosa è informazione (dunque, una notizia a cui è stata data una ‘forma’) da una comunicazione magari innocente o, peggio ancora, da una comunicazione di propaganda? E’ qui che ci si avvicina a un tema di democrazia, legato alla libertà di informare (una libertà attiva), e alla libertà di essere informati (una libertà passiva). 
La presenza di un mediatore si fa spesso essenziale: la testimonianza è palese nei casi come quelli della pandemia di Covid-19. Ma diventa, in un mondo globalizzato, altrettanto importante il ruolo dei social. Dunque, quale può essere il punto di caduta? Può essere censurato (cancellato) un post su un social network ritenuto scorretto? E’ un tema capace di scatenare dibattiti infiniti. Prima di tutto andrebbe ristabilito il primato del ruolo dell’informazione, che non significa creare “la casta”. Vuol dire fare in modo che chi usufruisce di un mass media per informarsi possa comprendere come la centralità vada messa su un sistema che prevede anche un Consiglio di disciplina per chi sbaglia. Poi, al netto di questo, va tenuto presente che nel social del mondo ideale, un utente usufruisce di un diritto, quello della libertà di espressione. E a questo punto, in questo mondo di un Paese fatto di libertà e di diritti, si cancellerebbe una opinione seppur ‘fake’? A questa domanda si potrebbe rispondere con lo stesso criterio della chiacchierata al bar dello sport. L’amico che ti dice la sciocchezza può essere biasimato (in linguaggio istituzionale ‘segnalato’).
Dunque, bene la scelta di Facebook di usare lo stesso antico criterio del bar. In questi giorni ha dato vita alla ‘rettifica social’ per Covid-19: se c’è una fake e hai cliccato ‘mi piace’, il sito ti avvisa che proprio tu, che hai ammiccato a quella notizia, avresti bisogno di andarti a leggere qualche notizia vera, magari sul sito dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ecco perché, poi, quando si tratta di oscurare un’informazione camuffata da comunicazione ci pensa la squadra dei debunker. Cosa sono? Professionisti (giornalisti), che confutano l’accusa falsa. La regola è: quando chi comunica informa solo uno che informa può smentirlo. Una regola che i social hanno iniziato a capire e che fa ben pensare come il futuro virtuale nelle reti sociali possa essere più ordinato.