La pandemia del Covid 19 ha colto l’Algeria mentre era in uno stato di profonda effervescenza politica da più di un anno. Le manifestazioni settimanali del movimento popolare chiamato Hirak hanno portato alcuni importanti cambiamenti nella struttura politica del paese ma senza però riuscire a far crollare la fortezza del regime. L’ingresso del paese nelle misure di contrasto alla Pandemia di Covid 19 è stato quindi un po’ tentennante, tra incredulità iniziale, indisciplina di una parte della popolazione e il panico di altre parti. Ma i poteri forti del paese non si perdono d’animo e a difetto di misure serie per combattere il contagio, approfittano della manna della tregua per saldare i conti con l’opposizione e militarizzare ulteriormente il paese. Se il mondo da questa crisi uscirà profondamente cambiato, l’Algeria rischia di uscirne stranamente simile a quella di prima del Hirak.

Una lotta lunga un anno

Dal 22 febbraio 2019, in Algeria, ogni venerdì, e successivamente anche di martedì, una importante fetta di popolazione è uscita per le strade di tutte le principali città del paese per protestare contro il regime in posto.  La scintilla che ha acceso il fuoco fu la ricandidatura del presidente Abdelaziz Bouteflika a un quinto mandato consecutivo. Malato, paralizzato, muto, forse nemmeno in grado di intendere e di volere, il presidente era mantenuta ufficialmente alla testa del paese da un clan di affaristi politici e imprenditori corrotti che hanno saccheggiato le ricchezze di un paese che negli ultimi due decenni ha conosciuto delle entrate colossali dalle esportazioni di idrocarburi.

Si parla di una cifra di 2000 miliardi volatilizzati tra più o meno inutili opere faraoniche fatturate certe volte fino a 10 volte il loro valore reale, malversazioni, tangenti, sprechi e veri e propri furti.

Una economia dilaniata in profondità, tenuta in vita soltanto dalla manna degli idrocarburi, un regime autoritario, falsario e corruttore, una sanità e una scuola pubblica praticamente svuotati della loro sostanza, questo è il triste bilancio del ventennio sotto la guida di Bouteflika e del suo clan di famigliari, vicini, amici e soci in affari.

È questo bilancio disastroso che ha spinto milioni di algerini ad uscire per dire: basta. Vent’anni sono più che sufficienti. Ma poi, quando il presidente ha presentato le dimissioni, si è capito che quello non bastava. Non bastava affatto. Il regime non è costituito da un presidente e nemmeno dalla sua unica cerchia stretta. Presto le parole d’ordine sono passati dal “No 5° mandato!” a “Devono andarsene tutti”. Dove tutti è inteso come tutto l’apparato politico e amministrativo nato dal partito del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) al potere dal 1962 e dei suoi satelliti, e come la fine dell’egemonia dei militari sulla vita politica ed economica del paese. Infatti “Stato Civile e non militare” è il secondo slogan più scandito dai manifestanti.

Un anno intero di lotte senza violenza. Un anno di paziente costruzione di un percorso plurale verso un sistema di libertà e diritto. Un anno in cui sono stati raggiunti alcuni modesti risultati: partenza di Bouteflika, della sua famiglia e del suo clan dal potere; arresto dei baroni degli affari e della corruzione, alcuni dei quali erano alti responsabili politici e militari.

Ma se il regime è stato messo in serie difficoltà e ha dovuto dare segni (almeno esterni) di cambiamento, le sue fondamenta sono rimaste intatte, e il potere dei militari ne è uscito rafforzato.

L’arrivo della pandemia

E’ in questo clima che è arrivata la crisi sanitaria del Covid 19. Prima solo sotto forma di echi lontani, poi sempre più vicini. Fine febbraio sono stati annunciati i primi casi. Prima, verso fine febbraio, un  italiano, che lavora negli impianti petroliferi del Sahara. Subito messo in quarantena. Ma poi il contagio ha viaggiato con cittadini algerini provenienti dalla Francia, come quel padre e figlia, venuti ad assistere a un matrimonio che prima di essere individuati hanno contaminato una famiglia intera, a Blida, una città a 60 chilometri a sud ovest di Algeri.

I primi annunci di casi di contagio, sono stati colti con diffidenza dalla popolazione. Molti sospettavano una mossa del governo per cercare di imporre uno stato di emergenza sanitaria per fermare la protesta. In effetti, l’ultima manifestazione del 13 marzo, mentre i casi cominciavano ad aumentare ed era stato anche annunciato un primo decesso, è stata molto imponente. Una delle più partecipate dalle contestate elezioni presidenziali di dicembre.

Ma subito dopo la moltiplicazione dei casi ha convinto gli animatori del Hirak a chiamare a fermare le manifestazioni. Anche quelli in carcere hanno fatto uscire comunicati per chiedere di sospendere la protesta fino a tempi migliori.

Panico, autorganizzazione e repressione

Dall’incredulità, parte della popolazione è passata al panico. Come fare? Dove andare? Il paese è cosciente da molto tempo di avere un sistema sanitario disastrato, ma in questo caso si è reso conto dell’abisso che ha di fronte. Come affrontare questa emergenza che ha messo in ginocchia paesi con sistemi infinitamente più solidi?

Da una parte il panico ha portato all’esaurimento dei soliti prodotti di disinfezione, delle mascherine e dei generi alimentari di prima necessità. Ma dall’altra sono apparse migliaia di iniziative di solidarietà autogestita, dai giovani che si mobilitano per pulire e disinfettare le strade del loro quartiere, ai laboratori di confezione di mascherine e di prodotti disinfettanti, nelle case, nelle università, nei luoghi di lavoro.

Dal lato suo anche il regime si organizza. Ma non tanto per affrontare l’emergenza, quanto per rafforzare la sua posizione. Un coprifuoco notturno è imposto, come se il virus si spostasse solo di notte, in ogni provincia hanno instaurato una cellula di crisi composta da soli politici e militari. Niente medici né dirigenti sanitari. Le strade si riempiono di soldati. E si approfitta dell’assenza di manifestanti per arrestare o prolungare la prigionia degli oppositori.

La protesta e la giustizia contaminata 

La giustizia in Algeria è sempre stata un organo del partito/ clan al potere. Anche se il potere algerino non ha sempre optato per la mano dura, ma quando si arrivava al processo, i giudici hanno da sempre condannato, con dossier vuoti e processi sbrigativi, gli oppositori a pene dettate al telefono dal potente di turno.

Dall’inizio del Hirak, molti semplici manifestanti e animatori del movimento popolare detto Hirak si sono visti arrestare e poi condannare con accuse abbastanza fantasiose: “Minaccia all’unità del paese”, per aver sventolato la bandiera amazigh oppure “attacco al morale delle truppe” , per aver criticato il ruolo invasivo del comando dell’esercito nella politica nazionale. Ma con l’organizzazione del simulacro elettorale del 12 dicembre, ci sono state grazie presidenziali, sentenze di non luogo e leggere condanne con la condizionale per molti di loro. La pressione della strada ad ogni processo era tanta e la politica del disgelo è stata servita come un segno di miglioramento della situazione con l’arrivo del nuovo presidente (non) eletto.

Ma subito dopo l’annuncio del confinamento sanitario, la giustizia e i servizi di sicurezza hanno cambiato rotta. Nuovi arresti e condanne più pesanti sono all’ordine del giorno, approfittando della tregua dichiarata dal Hirak.

Il caso Karim Tabbou 

 Il caso dell’oppositore politico Karim Tabbou, il noto animatore del Hirak, arrestato 6 mesi fa e accusato di “indebolire il morale dell’esercito nazionale” per aver sostenuto sui media internazionali discorsi contrari al potere dei militari. è molto illustrativo di questa svolta autoritaria.

Karim Tabbou è un oppositore di lunga data al regime di Algeri. Avendo fatto le sue prime armi nel Fronte delle Forze Socialiste, Di Hocine Ait Ahmed, il primo partito d’opposizione alla dittatura dei colonnelli dell’Algeria post indipendenza, Karim ne è uscito per alcuni dissensi interni al vertice del partito, dopo esserne stato segretario generale dal 2006 al 2011. Nel 2013 fonda un nuovo partito, l’Unione Democratica Sociale (UDS).
Dalle sue varie posizioni di segretario generale e di parlamentare si è sempre opposto alle pratiche di politica teleguidata dai poteri forti e dai clan affaristici.

Arrestato l’11 settembre 2019 per “attacco al morale dell’esercito nazionale”, fu messo in libertà condizionale il 26 settembre, per essere ri-arrestato il giorno dopo, per aver chiamato a continuare la lotta. Dopo il secondo arresto è messo in isolamento. I suoi avvocati denunciano varie pressioni e soprusi nei suoi confronti.

L’11 marzo Tabbou fu condannato a un anno di cui 6 mesi con la condizionale. Essendo in carcere da più di 6 mesi doveva uscire alla fine del mese di marzo.

Invece il 24 marzo, mentre tutti i militanti del Hirak, compreso lui, hanno chiamato alla tregua sanitaria è stato portato davanti al Tribunale di Sidi Mhammed, nella Capitale, in assenza dei suoi avvocati. Un tribunale d’appello, improvvisato e tenuto anche in sua assenza dello stesso accusato, dopo che ha avuto un malore per un picco di pressione arteriosa, mentre protestava energicamente per l’irregolarità della procedura.

Alla fine di questo processo per lo meno surreale, celebrato in assenza di qualsiasi garanzia o norma conosciuta, Tabbou è stato ri-condannato a un anno fermo di prigione, perdendo così la possibilità di uscire con la condizionale.

Stato di emergenza militare per una sfida sanitaria

La condanna irregolare di Tabbou è stata denunciata da vari organi nazionali e internazionali di difesa delle libertà e dei diritti. Ma purtroppo non è l’unico atto di prepotenza di un regime che sta approfittando della crisi sanitaria per regolare i suoi conti.

In assenza di misure sanitarie serie, le strade sono state militarizzate e lo stato di emergenza di fatto è stato decretato in tutto il paese. C’è persino un coprifuoco serale. Come se i virus fossere degli “allegri festaioli” che si spostano solo dall’ora dell’aperitivo fino all’alba.
Gli ospedali sono impreparati. Le attrezzature inesistenti. In molti casi, malati arrivati in ospedale sono scappati di nuovo per l’assenza di cure. Nonostante la mobilitazione del personale medico, che sta combattendo con niente, la distruzione del sistema sanitario nazionale è profonda e non può essere recuperata in pochi giorni. Ammesso che ci sia volontà politica di farlo.

Invece c’è volontà politica di chiudere la scena politica e mediatica. Condanne pesanti nei confronti dell’opposizione, arresti di giornalisti e chiusura di siti internet e giornali è all’ordine del giorno.

Una situazione non gravissima ma preoccupante

In data 11 marzo il bilancio nel paese non è pesantissimo, ma resta preoccupante. Il totale dei casi ha raggiunto 1825 sparsi su 46 province. Cifra da prendere con le pinzette vista la disorganizzazione del sistema di rilevamento. 275 i decessi con un rapporto altissimo quindi tra contaminazioni e decessi, 14,5 %. Mentre il numero di guariti è di 460.

Le misure di contenimento funzionano in qualche modo solo perchè in molte zone la popolazione si è mobilitata. Rimangono a casa per scelta e molti gruppi si autoorganizzano al lavoro, all’università, per quartieri e villaggi, per disinfettare i luoghi comuni, per gestire le penurie di cibo, per fabbricare artigianalmente mascherine e gel disinfettanti e per aiutare i più bisognosi.

La popolazione algerina laddove ha capito di non avere uno Stato alle spalle. Almeno non uno Stato che si preoccupa del loro benessere e salute. Ma un regime che lotta soltanto per la sua sopravvivenza. Ha deciso di fare da sé. E se si eviterà la catastrofe sarà solo per merito di queste mobilitazioni.