Le udienze di cui si tratta qui sono quelle del 26 novembre e del 17 dicembre 2019 al tribunale di Locri. Continua la deposizione del colonnello Sportelli, che per la Guardia di Finanza ha diretto l’indagine a sostegno delle ipotesi accusatorie della procura; nel corso delle due udienze il colonnello presenta alla rinfusa tutta una serie di materiali di vario tipo, da assegni relativi alla riconsegna dei bonus da parte dei fornitori, a fatture che l’accusa considera falsificate, a buste paga che ritiene gonfiate, a prestazioni occasionali che sarebbero state pagate ma non effettuate. Su ognuno di questi materiali ricostruisce le tesi dell’accusa, riferendosi di volta in volta a capi di imputazione quali la distrazione di fondi, il peculato o la truffa, spesso passando dall’uno all’altro se il Presidente muove obiezioni. Anche in queste udienze, affinché il materiale documentale prenda il senso che gli attribuisce l’accusa, c’è bisogno del supporto delle conversazioni intercettate che, pur non essendo utilizzabili in quanto non si dispone ancora della trascrizione ufficiale, vengono copiosamente lette per stralci selezionati dall’accusa stessa.

Come abbiamo già rilevato nelle fasi precedenti della deposizione del colonnello, nell’analisi di questi documenti la ricostruzione assume un carattere tecnico nel cui dettaglio non ha molto senso entrare dal punto di vista del nostro monitoraggio di cittadinanza; non sta certo a noi giudicare della validità delle ipotesi di falso sostenute dall’accusa, né della consistenza probatoria della ricostruzione proposta. Ci limitiamo a osservare che, all’orecchio di chi assiste al dibattimento, nel susseguirsi un po’confusamente di materiali e imputazioni, i temi trattati sembrano essere comunque sempre gli stessi: sono in buona sostanza tutti esempi di varia natura con cui si ripropone l’ipotesi di falsificazione che l’accusa muove ai documenti presi in esame e che cerca di sostenere con l’aiuto di stralci di intercettazioni.

Il Presidente Accurso continua nel suo sforzo di introdurre elementi di distinzione sul piano giuridico e, più in generale, di chiarezza nella ricostruzione dei fatti presentata dall’accusa. Sottolinea più volte che quelle conversazioni potrebbero essere interpretate diversamente, chiede se ci sia prova della distrazione o della falsità presunte e fa rilevare quanto sia sdrucciolevole il terreno della prova in un quadro che non riesce ancora a superare l’ambiguità fra irregolarità amministrative e reati penali. Tanto che, quando Sportelli si lascia andare al commento “credo che rilevi più del caos amministrativo”, il Presidente gli fa notare che l’accusa ha sempre negato che ci fosse caos amministrativo a Riace, anzi, ha sempre sostenuto che gli imputati avevano piena consapevolezza di tutto, presupposto indispensabile per sostenere la responsabilità penale.

Ad osservare le cose da semplici cittadini, si ha la netta impressione che ci sia un circolo vizioso che rimanda dai documenti agli stralci di conversazioni intercettate e viceversa. Per quanto queste si prestino a varie interpretazioni, l’interpretazione che ne dà Sportelli appare già incardinata nelle ipotesi che l’accusa ha formulato attraverso i documenti, che invece le intercettazioni dovrebbero in fin dei conti “provare”.

Insomma, all’ascolto, ci si sente continuamente dentro un ragionamento del tipo “come volevasi dimostrare”. Solo che qui non si tratta di un teorema matematico, ma di ricostruire piani, azioni, pensieri, esperienze, timori di più soggetti, presi nella complessità di un agire collettivo, di responsabilità condivise, di ruoli individuali, di rapporti informali e istituzionali. Non è necessario essere uno scienziato sociale per capire la complessità dei piani coinvolti e i rischi di un approccio predittivo, che nella premessa anticipi già esiti dati come inevitabili.

Prendo un esempio dall’udienza del 26 novembre per far capire meglio lo spaesamento che coglie un osservatore che tenti di seguire la logica del dibattimento. Sportelli presenta un caso di distrazione fondi riferito al rapporto fra Città Futura e Alberto Gervasi, titolare di un piccolo negozio di alimentari a Riace, che risultava essere un fornitore che accettava i bonus locali con cui i migranti sostenevano le spese di vitto e vestiario. A suo dire, Lucano gli avrebbe anticipato arbitrariamente 4.000, che poi diventano 3.500 euro, con assegno del giugno 2016 per un grave problema di salute, perché era stato colpito da un cancro e doveva affrontare delle cure costose; questa somma gli sarebbe stata data in anticipo rispetto ai bonus che Gervasi avrebbe poi erogato per la spesa dei migranti e che in effetti ha poi riconsegnato a copertura della somma anticipatagli. Il tutto viene al solito accompagnato da brani di conversazioni intercettate, dove Lucano si lamenta di dover anticipare questi soldi, sbotta perfino in un “ma che siamo la sua banca?”, ma da cui emerge anche con chiarezza che sono stati restituiti sotto forma di bonus erogati. Il Presidente osserva allora che questa somma, per quanto anticipata in modo “non ortodosso”, era pur sempre stata impegnata nell’accoglienza, in quanto in fin dei conti era andata a coprire i bonus spesi dagli immigrati; dove sarebbe la distrazione? Il colonnello si arrampica sui vetri e parla ora di “distrazione temporanea”, ma, sostiene, c’è il sospetto che la restituzione dei bonus sia stata artefatta e che quindi potrebbe esserci truffa.

A questo punto, introduce un secondo assegno a Gervasi per 2.641 euro del settembre 2017 trovato nella documentazione; questo non risulterebbe invece coperto da nessuna restituzione di bonus erogati e infatti il Presidente dice che questo potrebbe presentare un problema. Il colonnello afferma allora che qui ci sarebbe distrazione, ma non essendoci stata restituzione non si può arguire la truffa. Peraltro, neppure la mancata copertura è provata, perché la rendicontazione per l’accoglienza nel 2017 è stata depositata nel luglio 2018, fuori dunque dal periodo di indagine; cosicché la lunga discussione si chiude con la richiesta del Presidente di andare a verificare se ci sia o meno questa copertura e Sportelli non evita di chiosare: “se c’è, è falsa”. Insomma, si parte da una distrazione fondi, ma viene fatto notare che non c’è; si slitta allora nella truffa, perché non si crede leale il documento di copertura con i bonus, ma senza nessuna prova; si passa ad altro caso che sembrerebbe più grave perché non c’è copertura, ma lo è meno perché c’è la distrazione di fondi ma non potrebbe esserci tentativo di truffa, a meno che non si ritrovi la copertura, la quale però si afferma già che sarebbe falsa.

L’impressione è di essere davanti ad un muro di gomma. Allora, più che continuare ad inseguire l’accusa lungo il filo delle sue ricostruzioni, seguendone i dettagli, che pure sappiamo essere decisivi nel procedimento giudiziale, vale forse per noi la pena di concentrarsi sulle strategie dell’accusa che le due udienze mettono in luce con chiarezza. Ne riconosciamo almeno due, che peraltro avevamo già cominciato a intravvedere e a segnalare, ma che qui sembrano prendere forma più compiuta.

La prima di queste strategie consiste nell’attaccare tutte le attività destinate all’integrazione, che Lucano realizzava con quanto riusciva a risparmiare dei fondi pubblici, facendole passare in massa almeno per altrettante distrazioni di fondi. A Riace, come Lucano stesso ha sempre sostenuto apertamente anche in sedi tecniche, la spesa pro capite per l’accoglienza era molto bassa e siccome dal luglio 2016 anche il CAS richiede la rendicontazione, secondo l’accusa il Comune avrebbe dovuto rendicontare in entrambi i progetti, SPRAR e CAS, solo quello che aveva effettivamente speso per l’accoglienza. Se si fosse limitato a rendicontare questa spesa, afferma Sportelli, noi non saremmo qui, “siamo qui perché si è voluto prendere il di più”. Ma cos’è quel “di più”, trattato in termini così generici, indistinti? È l’integrazione, che però lo SPRAR richiede. Allora vediamo che questa indistinzione serve a far sparire l’idea stessa di integrazione e a sostanziare l’idea più generale che le “economie”, i risparmi che Lucano cercava a tutti i costi di fare per realizzare i suoi progetti di integrazione, sarebbero stati tutti per definizione “fuori legge”. Fuori legge nel CAS, perché dovevano rendicontare solo quanto speso per vitto, alloggio e vestiario; fuori legge nello SPRAR, perché andavano dichiarati come economie, in modo che potessero essere detratti dal finanziamento dell’anno successivo. “Quando [Lucano] parla di economie, sono soldi che non ha speso, cioè un gruzzolo di denaro a sua disposizione, cioè della sua associazione”. Anche solo questo slittamento, da Lucano alla sua associazione, è significativo: pur avendo dovuto ammettere più volte che non c’è prova che ci sia stato un vantaggio economico personale, butta lì l’affermazione che dalle “economie” si crea un gruzzolo a sua disposizione, poi si vedrà dove esattamente collocare il gruzzolo suddetto; così facendo, induce a pensare a quelle “economie” come fonti di un gruzzolo indifferenziato, senza destinazione, a disposizione per qualsiasi fine.

Le finalità invece sono più che note. Abbiamo già visto che queste economie avevano permesso al        Comune di ospitare più persone di quante ne finanziassero i progetti, o di ospitarle per più tempo (i “lungo permanenti”), per ragioni ideali di umanità e solidarietà. Ma soprattutto, come lo stesso Lucano ha ribadito perfino in tribunale nelle sue dichiarazioni spontanee, quelle economie sono state la base indispensabile per realizzare le attività di integrazione: sono nati così restauri, bonifiche, servizi, laboratori, fattoria didattica, frantoio di comunità, turismo solidale, iniziative culturali, spettacoli. E ha anche ribadito che i servizi di integrazione sono stati forniti a tutti gli ospiti di Riace, che fossero nel CAS o nello SPRAR. Qui invece, l’ipotesi che questi fondi risparmiati dall’accoglienza fossero destinati all’integrazione, che notoriamente era sempre stato il punto di forza di Riace, non viene nemmeno menzionata; né che al CAS fossero offerti servizi di integrazione. Anzi, “il CAS era il salvadanaio di Riace”, dice Sportelli, e i risparmi erano “guadagno pulito”, soldi “non spesi per i migranti ma per altri”, senza ulteriori precisazioni. Eppure a Riace da molto tempo si economizzava per investire nell’integrazione anche lavorativa dei migranti; lo sviluppo locale e la riqualificazione urbana che il paese ha conosciuto, che ha creato occasioni di lavoro per riacesi e migranti, non sono certo stati una questione degli ultimi anni, come testimoniano tante inchieste giornalistiche, libri, video e film prodotti negli anni passati.

Lo stesso si può dire dell’unica attività che Sportelli cita esplicitamente, il Riace in Festival, che si sarebbe fatto – dice – per una quindicina d’anni (in realtà, dal 2009), ma solo nel 2017 gli appare improvvisamente come una grossa distrazione di fondi. Peccato però che proprio il Riace in Festival non sia mai stato finanziato con i fondi dell’accoglienza, solo con fondi della Tavola Valdese e di Recosol; a forza di voler stare sul generico, si rischia di sbagliare quando si fanno esempi. Più puntualmente, Lucano aveva portato ai giudici l’esempio del frantoio di comunità, realizzato con i fondi destinati all’integrazione, che proprio quest’autunno è finalmente entrato in funzione e con la ventina di contratti regolari di lavoro stagionale cui ha dato luogo ha dato dimostrazione plastica di cosa si intendeva a Riace per integrazione lavorativa.

L’accusa insomma sa bene che queste “economie” utilizzate per l’integrazione non sono certo una scoperta dell’indagine, che sono avvenute alla luce del sole e sono state addirittura il fulcro del modello Riace e che per anni non hanno suscitato nessuno scandalo. Per questo non le nomina, non le specifica, si trincera dietro termini generici, o le confonde, le priva del loro contenuto, toglie loro l’anima, nella speranza di ridurle a quel “gruzzolo” che chiunque può facilmente immaginare attiri gli appetiti, eccome se li attira…

Cosicché in un paese come il nostro, che ha visto crescere sull’accoglienza dei migranti profitti “più alti della droga”, secondo le parole di un noto criminale dedito proprio a questo, si può presentare come un reato grave l’aver voluto destinare tutte le “economie” all’integrazione.

La seconda strategia, che pure avevamo già visto emergere, è la delegittimazione di Lucano. Come si capisce anche dallo slittamento verbale compiuto a proposito del “gruzzolo di denaro a sua disposizione”, che abbiamo appena segnalato, la delegittimazione di Lucano è profondamente intrecciata con l’attacco alle attività di integrazione, che sono proprio quelle che hanno fatto conoscere il modello Riace e rappresentano agli occhi di tanti il risultato più eclatante del suo impegno creativo messo al servizio dei suoi ideali di umanità e solidarietà. Sportelli, nel trattare quel “di più”, a suo giudizio illecito in quanto risultato di distrazioni e falsificazioni, introduce continuamente ambigue allusioni a usi personali di vari imputati, e più diffusamente di Lucano; non ha nessuna prova di questo, anzi dall’inizio della sua deposizione ha dovuto continuare a rispondere che non c’è prova di un vantaggio economico personale da parte di Lucano. Anche qui, conferma che l’analisi degli accrediti e delle movimentazioni del suo conto corrente ha mostrato che non disponeva che della sua modesta indennità da sindaco. Eppure, sulla base di dubbie mezze frasi estrapolate da un colloquio intercettato, Sportelli insinua che, a suo avviso, le spese di Lucano erano più elevate degli introiti, che per lunghi periodi sembra non aver ritirato nulla dal conto, facendo balenare la possibilità che disponga di proventi in nero. E quando il Presidente chiede di precisare, cita qualche altra mezza frase per lanciare dubbi sui rapporti economici fra Lucano e Rosario Zurzolo di Camini, su sospette situazioni debitorie che li legherebbero.

Negare che l’integrazione fosse un’attività non solo lecita a Riace, ma addirittura imposta al pari dell’accoglienza dalle finalità istituzionali dei progetti portati avanti dal Comune, serve a negare la diversità di Riace, almeno quanto a delegittimare il sindaco che ne aveva fatto la bandiera dello sviluppo e della resistenza contro un destino di declino e spopolamento. Se, come abbiamo già osservato, proprio questa diversità permette all’esperienza di Riace di mettere in evidenza delle carenze di sistema nell’organizzazione delle politiche di accoglienza e integrazione e di attuare un’azione pubblica che tenta di andare oltre quelle carenze, le strategie dell’accusa smentiscono tutto questo a priori: l’integrazione non c’è, nessuno l’ha vista, si sono solo messi insieme “gruzzoli”, come sempre, come dovunque, come tutti.

Quale migliore indizio del carattere politico del processo intentato a Locri? Proprio perché si stanno processando degli ideali di umanità e solidarietà, privare le attività di integrazione del loro contenuto di persone a cui sono destinate, di storie di cui si fanno carico, di obiettivi specifici che ci si prefigge di raggiungere, deve apparire all’accusa come il modo migliore per depotenziare quegli ideali, renderli irriconoscibili, disseccarne l’afflato morale. No, davvero Riace non può essere stata diversa…

Articoli precedenti:

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