La città di Portici, in provincia di Napoli, si trova alle falde del Vesuvio, e la sua piccola baia si apre come un balcone primaverile spalancandosi sul mare. E poiché la toponimia è, all’occorrenza, una scienza esoterica capace di reinventare le parole, sin dall’infanzia ho forgiato una paraetimologia che accreditasse l’ipotesi per la quale il nome della città provenisse dalla parola «porto», e che Portici, come Palermo, fosse stata fondata dai fenici e che come Palermo, fosse una città ch’era «tutt’un porto».

E il porto di Portici, il Granatello, questa piccola terrazza aperta sul golfo di Napoli e in cui sembra sempre essere in attesa della «bella iurnata» di cui parla Massimo, il narratore di Ferito a morte di Raffaele La Capria, è circondato, alle sua spalle, dai binari della stazione dei treni. E sullo sfondo, ancora la massa nera e minacciosa del Vesuvio. Da Portici, come da Itaca e come da qualsiasi porto, si parte per l’orizzonte vasto e profondo, per l’avventura e «l’alto mare aperto», per riorientare le stelle e ritrovarle altrove, fisse e immutabili, alte nel cielo. Quando sono partito da Portici per arrivare a Parigi, ricordo di aver trascorso tutto il pomeriggio lungo il molo, a ricordarmi della mia fantasticheria infantile a proposito del nome della città, senza ancora sapere che quel nome stava per diventare, per me, un nomen-omen, un’esperienza linguistica che affermava il valore del destino nei nomi. L’educazione sentimentale è soprattutto quest’azione di creare e forgiare una sintassi in cui la parola reinventa la grammatica in una geografia sentimentale.

Fu a Parigi, nella biblioteca universitaria dell’Università della Sorbonne Nouvelle che lessi questa cosa, mentre sfogliavo Il cenacolo. Seminario per un romanzo di Arturo Benedetti (Palermo, 1907 – Parigi, 2013), il primo e unico poeta surrealista italiano, per la mia tesi. In questo libro, che univa, senza soluzione di continuità, la scrittura saggistica al romanzo, uno dei personaggi, Alfonso Sinibaldi, giovane poeta surrealista italiano che si unisce alla Resistenza francese nel sud della Francia e dietro cui si cela lo stesso Benedetti, commentava una poesia di Guido Cavalcanti,  «Perch’i’ no spero di tornar giammai».

La scena è ambientata a Nizza nel novembre del 1942, pochi giorni prima dell’ingresso delle truppe italiane nel sud-est della Francia in seguito allo sbarco degli alleati nel nord-Africa. Sinibaldi/Benedetti è con Luis Aragon nell’appartamento che quest’ultimo condivide con Elsa Triolet. E davanti al mare nero come la pece che si spalanca dal balcone di Aragon, Sinibaldi pensa alla sua città natale, Palermo, alla lontananza, alle rughe sul volto di sua madre, alla guerra, all’infanzia, al mare blu di Palermo, alle cupole rosa della Chiesa di San Giovanni degli Eremiti e al viso di Nina a diciassette anni e allora recita a memoria la poesia di Cavalcanti.

Ed è in quel momento che torna a parlare la sua lingua nativa, l’italiano, dopo più di vent’anni dall’ultima volta, prima del suo arrivo a Parigi. Ed è in quel momento che Sinibaldi dice ad Aragon che la lingua è un luogo, è uno spazio, che cartografa le terre e i mari di una geografia sentimentale e che il fascismo ha i giorni contati e che la guerra presto sarebbe stata vinta. Quel passaggio allora mi emozionò molto, poiché, anche se non ero di certo in esilio, ero lontano da casa, dal cielo blu di Napoli, dal viso di mia madre le cui rughe avanzavano senza che io potessi far nulla, dai limoni gialli del chiostro di Santa Chiara e dal viso di Gilda che non mi apparteneva più. Ma, come Sinibaldi e Cavalcanti,  avevo con me la mia lingua. Fu in quel momento che capii come diventare lo scrittore che volevo essere: la mia grammatica dei sentimenti poteva trasformarsi in una geografia sentimentale, poteva diventare un edificio la cui architettura era costituita dalla sintassi della lingua nativa e le cui architravi erano i  volti e i luoghi amati e lontani e la punteggiatura, una ritmica del cuore. Tutto quanto avrei scritto e raccontato, sarebbe stata una lunga lettera d’amore capace di oltrepassare le frontiere, come la ballatetta di Cavalcanti, che, prendendo vita, valica i confini e attraversa il cielo della Toscana per raggiungere la donna amata.

E allora immaginai tutti quei poeti che dalle origini ai giorni nostri, come Cavalcanti, fecero della lingua la propria patria e capii come la storia della lingua italiana fosse una lungo trattato politico e poetico che definiva il concetto di cittadinanza meglio di quanto potesse fare anche la Costituzione.

Qualche mese dopo, al Capes d’italiano, il dossier per la composition comprendeva un sonetto di Cavalcanti. Fu come una rivelazione: sarei diventato un professore e avrei insegnato la lingua italiana. Ancora oggi, ad ogni rentrée, prima di entrare in classe, rileggo quel sonetto per farmi coraggio e agli alunni ripeto, come Sinibaldi ad Aragon sul balcone di Nizza durante la guerra, che la lingua è una patria e la patria una grammatica sentimentale.