Ha un volto antico, lineamenti statuari, un sorriso dolce che stempera la malinconia ma è figlia della rigida e chiusa comunità tagika dove una donna viene scambiata per una mucca o una pecora. La sua ribellione le costa la condanna a morte. L’assassinio non si consuma completamente e lei riesce a sopravvivere ma il corpo è marchiato da ferite profonde che le scavano fisicamente e psichicamente. Fugge con l’unico uomo che ama salvandosi ad un costo altissimo. Altre terre straniere le fanno da grembo e culla per la nascita della prima figlia, poi la fuga continua.

Arriva negli immensi campi profughi della Turchia, affronta le acque dell’Egeo fattasi ormai tomba dei tanti naufraghi che hanno tentato l’insperato. Viva per miracolo conosce l’inferno di Lesbo e poi, faticosamente, riprende la strada su su lungo la rotta balcanica per dare alla luce la seconda bimba. Scorrono così quattro anni della sua vita, la speranza si sfibra, la malinconia s’impossessa della sua anima ma non ha scelta. “No option” continua a ripetere. Per dieci volte tenta il “game” e per dieci volte lei, le due bimbe, il marito, vengono catturati come animali, rinchiusi in un container tra i fetori di chi c’era prima e di chi, come loro, è venuto dopo. La mancanza d’aria è un ricordo quasi fisico, indelebile, il flash back la fa annaspare come se stesse soffocando . “Perché ci è stato fatto questo” chiede senza attendersi una risposta. Ma gli occhi, i suoi occhi parlano di qualcosa d’indicibile che vorrebbe dire e che non riuscirà mai a dire; qualcosa di insondabile è sigillato nella sua anima. Lo sanno bene le sue bimbe che osservano i bagliori feriti del suo sguardo e la richiamano alla vita, all’esteriorità, al fuori, impedendole di cadere all’interno di se stessa.

Hanno camminato per dieci giorni quest’ultima volta, fra le foreste e la boscaglia, nascondendosi negli anfratti e proteggendosi dalla pioggia con i sacchi neri dell’immondizia. Sono sopravvissuti, hanno toccato quella soglia tra la vita e la morte, tra l’inizio e la fine, che ha portato via alle bimbe il respiro dell’infanzia. Sono piccole ma sono già grandi, sono figlie ma fanno da madri risvegliando nei genitori la luce della vita. Nei loro corpi di dolore restano le tracce delle ferite, dei piedi piagati, della paura che non ha nome, dei risvegli notturni, degli incubi, dell’enuresi. A parlare sono gli occhi, soprattutto gli occhi di questa madre che, a tratti, si perdono prigionieri in uno spazio indefinito simile a quel terribile container senza aria. Le bimbe si aggrappano al suo sguardo cercando quell’assonanza che faticano a ritrovare. Allora la risvegliano con il rumore del mondo, la richiamano con quella frastornante continua attività che è un grido di aiuto. La scena ritorna a prendere vita, la morte ha perso il suo potere nell’anima ferita.

Rimane il volto del trauma che ha preso forma nelle pieghe della sua anima.

di Lorena Fornasir