La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, CEDU, ha condannato il governo turco a 2.500€ di risarcimento per aver violato il diritto alla libera espressione arrestando Selahattin Demirtas, l’ex co-presidente del Partito Democratico dei Popoli che si trova in carcere da circa 3 anni.

Secondo il giornalista Kayhan Karaca, corrispondente a Strasburgo dell’emittente pubblica tedesca Deutsche Welle, la decisione riguarderebbe una delle accuse rivolte all’ex parlamentare. Si tratterebbe dell’intervento televisivo che Demirtas fece il 5 luglio del 2005 presso il canale RojTv quando lo stesso era Presidente dell’Associazione per i Diritti Umani nella città di Diyarbakir, quindi non era ancora eletto come parlamentare. L’accusa è quella di “fare propaganda pubblica per il conto delle organizzazioni terroristiche”. Secondo la CEDU, l’intervento di Demirtas rientra nel diritto di espressione che deve essere garantito dalla costituzione.

Selahattin Demirtas si trova nel carcere speciale a Edirne, stile F, un centro di detenzione molto noto per via del suo sistema di celle a isolamento. Attraverso i suoi avvocati, l’8 luglio, Demirtas ha comunicato, via Twitter, alcuni dettagli del suo processo. Con i suoi documenti, l’ex co-presidente dell’HDP, ha smontato varie accuse che gli sono state rivolte sin dai primi giorni della sua detenzione. L’obiettivo di quest’azione è senz’altro quello d’informare i cittadini contro i media main stream che da circa tre anni portano avanti una campagna di disinformazione e di calunnia nei suoi confronti, definendolo, senza pudore, come un “terrorista” o “assassino”.

Testimone anonimo

Nelle carte del processo di Demirtas compare il nome di un testimone anonimo che viene citato con lo pseudonimo “Mercek” (la lente). Secondo le dichiarazioni rilasciate da questo, nel 2009, Demirtas fece un intervento nel parlamento nazionale in lingua curda e per questo ricevette delle indicazioni dal KCK, Unione delle Comunità del Kurdistan, organizzazione armata definita come “terroristica” dallo Stato.

Tuttavia a fare quel discorso in curdo era in realtà un altro parlamentare, Ahmet Turk e secondo il tribunale penale di Ankara (16 febbraio 2018) non è mai esistito un testimone come “Mercek” né c’è mai stata una dichiarazione del genere. Nonostante questo, nel mese di novembre del 2016, Demirtas è stato arrestato anche grazie alle dichiarazioni di questo testimone. La cosa più curiosa è il fatto che il procuratore che ordinò l’arresto dell’ex parlamentare sia stato arrestato con l’accusa di appartenere alla comunità di Gulen, realtà accusata di ideare e mettere in atto il fallito golpe del 2016 e definita dallo Stato come un’organizzazione “terroristica”.

Lettera inesistente

Un altro elemento prodotto da Demirtas è una lettera che secondo il procuratore sarebbe scritta dai membri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione armata definita come “terroristica” dallo Stato, da consegnare a una famiglia nella città di Elazig. Nelle carte del processo si specifica che la lettera sarebbe stata trovata nel computer personale di Abdullah Demirbas, l’ex sindaco di Sur e sarebbe stata consegnata di persona a Demirtas insieme ad un altro parlamentare Gultan Kisanak.

Tuttavia, grazie ad un’indagine informatica effettuata da un’azienda privata, questa lettera, che risalirebbe al 2009, è stata inserita, in modo illegale, nel computer personale dell’ex sindaco, successivamente al 2009. L’analisi informatica è stata accolta e riconosciuta dal quinto tribunale penale di Malatya, nel mese di febbraio di quest’anno e per questo sia Demirbas sia Kisanas sono stati assolti dall’accusa. Ma Selahattin Demirtas è tuttora in carcere anche grazie a questa accusa infondata e inoltre, anche questo secondo caso è in mano allo stesso procuratore.

Intercettazioni 

Secondo i procuratori, un altro motivo per arrestare Demirtas è legato alle sue “telefonate con alcuni membri del KCK”. Ovviamente qui si tratta di intercettare le conversazioni telefoniche di un parlamentare prima dell’inizio di un processo e senza autorizzazione del Parlamento nazionale. Per di più, le persone elencate nella lista dei “terroristi” erano parlamentari, sindaci oppure consiglieri comunali dell’HDP. E ancora una volta a preparare questa accusa c’è sempre lo stesso procuratore.

Partecipazione alle riunioni

Un’altra accusa rivolta all’ex parlamentare è quella di aver partecipato alle riunioni del Congresso per la Società Democratica (DTK), realtà legale ma definita come un’organizzazione terroristica” esclusivamente in questo processo. Anche perché già nel 2012, il DTK è stato ufficialmente invitato ed ascoltato dalla commissione parlamentare che lavorava su una nuova costituzione. Alla fine degli incontri il DTK ha presentato in modo scritto le sue relazioni ed a partecipare a questi incontri c’erano anche due parlamentari del partito al governo. Tuttavia quando si tratta di Selahattin Demirtas si inventa un’altra versione.

Discorsi parlamentari

Oltre a queste accuse infondate preparate dai procuratori e smantellate dagli avvocati dell’ex parlamentare, tra le carte ci sono numerosi riferimenti ai suoi discorsi parlamentari. Grazie all’articolo 83/1 della Costituzione, gli interventi parlamentari dei deputati non possono essere soggetti alle indagini e gli stessi deputati non possono essere denunciati e/o processati per questo.

Dunque ancora un’altra volta è chiaro che la detenzione di Selahattin Demirtas non ha alcuna base giuridica ma è puramente politica.

Infatti, nel mese di novembre del 2018, si era pronunciata la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, CEDU, chiedendo al governo di scarcerare immediatamente l’ex co-presidente dell’HDP. La reazione del Presidente della Repubblica è stata netta e chiara: “Non riconosco questa richiesta, non è vincolante per noi”.

Nonostante tutto, l’8 luglio, Selahattin Demirtas, attraverso i suoi avvocati, ha mandato anche questo breve messaggio che mostra la sua forza, convinzione e determinazione: “Da circa tre anni, io e i miei amici, siamo rinchiusi nelle celle, grazie a diversi complotti. Credo che prima o poi la giustizia arriverà. Non parlo così perché mi fido di questo sistema giuridico politicizzato ma solo perché ho fiducia nei confronti del popolo. Abbiamo fatto diversi sacrifici a favore della pace e per la convivenza dei popoli. Questo è il conto che stiamo pagando. Nonostante tutto non abbassiamo la testa, siamo fiduciosi e continuiamo a resistere. Lo faremo fino a quando non vinceranno la pace e la democrazia”.