Domani, 5 luglio 2019, è una data doppiamente simbolica e doppiamente importante per l’Algeria. Da una parte è la data commemorativa del 56esimo anniversario dell’indipendenza ottenuta dalla Francia dopo una lunga e crudele guerra di Liberazione. (Leggi qui “5 luglio 1962”, e qui “La bandiera della Zia Aichoucha“).

Dall’altra parte domani è venerdì e i venerdì, dalla fine del febbraio scorso, non passano inosservati in Algeria. Venerdì 5 luglio 2019 sarà il ventesimo venerdì di protesta di quello che ormai si chiama l’Hirak algerino. La rivolta pacifica del popolo contro il sistema corrotto e violento imposto da quel 5 luglio 1962.

Dopo 20 settimane

20 settimane di proteste in cui ogni venerdì milioni di cittadine e cittadini si sono riversati per le strade di tutto il paese hanno prodotto cambiamenti importanti.

Il presidente Abdelaziz Bouteflika vecchio e malato, ormai ridotto a marionetta in mano al suo clan, è stato mandato via. Le elezioni presidenziali previste per il mese di aprile sono state cancellate. Una serie di uomini fino ad allora considerati intoccabili sono stati arrestati. Il fratello del Presidente e eminenza grigia, Said Bouteflika, alcuni tra gli imprenditori più ricchi del paese, alcuni tra i generali più potenti del paese.

Ma il regime non è caduto. Al timone rimane un uomo solo, il generale Gaied Salah. Faceva parte del vecchio sistema, ne era una delle colonne portanti. Finora, le proteste sono servite solo a permettergli di fare il vuoto intorno a sé e a togliere di mezzo tutti i rivali più forti.

Caduti dalla padella nella brace

Ma la gente non ci sta a rifare una nuova esperienza egiziana. Non vogliono un Al Sisi algerino. Il Generale Gaied si è autoproclamato protettore della volontà popolare e una volta messi in carcere i presunti colpevoli di tutto, propone di continuare con un processo di ritorno immediato all’ordine costituzionale tramite elezioni, da organizzare sotto la sua benevola protezione.

La gente chiede un processo di transizione vero. Un’assemblea costituente, un meccanismo di dialogo nazionale per riformare la Costituzione e le istituzioni dello Stato e ricominciare tutto da capo: una nuova repubblica.

Se la condotta dei manifestanti resta impeccabile – nessuno scontro dopo 20 settimane di presidi con milioni di persone per le strade – quella delle forze dell’ordine, tranquilla e certe volte anche favorevole all’inizio, ora comincia a farsi più dura.

Fuori dalle manifestazioni, oltre ai pilastri dell’ex regime e agli imprenditori più o meno corrotti, il Generale comincia a far arrestare anche degli oppositori. Il pugno di ferro comincia con l’arresto di Louisa Hannoun, segretaria generale del Partito dei Lavoratori, poi con la morte in carcere (dopo un lungo sciopero della fame) dell’attivista per i diritti umani Kamareddine Fekhar. E poi prosegue con l’arresto di vari manifestanti e negli ultimissimi giorni di un vecchio combattente dell’indipendenza, Lakhdar Bouregaa. Quest’ultimo, che è tra i puri e duri che non hanno mai accettato il sequestro dell’indipendenza, è reo di aver detto che l’esercito algerino è uno strumento in mano al dittatore di turno. Come dargli torto, dopo il suo arresto?

La bandiera della discordia

Negli ultimi giorni, il generale ha fatto un discorso molto aggressivo nei confronti della componente berberofona del paese, in modo particolare degli abitanti della Cabilia, accusandoli di voler spaccare il paese e vietando le bandiere amazigh durante le manifestazioni. L’intento è chiaro. Quello che vuole spaccare il paese tra arabi e amazigh è proprio lui. Spaccare il movimento di proteste.

Le idee razziste tra arabofoni e berberofoni esistono da sempre. Il Nazionalismo arabo ha da sempre negato perfino l’esistenza del popolo amazigh. E per anni ci sono state lotte e proteste per il riconoscimento dell’origine amazigh del Nord Africa, per il riconoscimento della lingua amazigh come lingua nazionale e ufficiale del paese, per la sua introduzione nelle scuole e nelle amministrazioni. Ma mentre il regime algerino ha fatto molte concessioni ai movimenti culturali, nell’opinione pubblica delle zone arabofone e in alcuni partiti e movimenti di ispirazione nazionalista araba o islamisti, rimane molto rifiuto di tutto quello che non entra nello stampo arabo-islamico. Dall’altra parte, in tutte le zone berberofone del Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia) e alla luce dell’imbarbarimento che sta colpendo tutto il pianeta, è cresciuto molto il discorso apertamente razzista contro gli arabi. In Cabilia, da qualche anno, intorno a uno dei vecchi leader del defunto Movimento Culturale Berbero (Mcb), che al contrario era un movimento democratico, aperto e nonviolento, si è formata una tendenza indipendentista, ancora minoritaria ma molto attiva e aggressiva.

Divide et impera

La volontà del Generale di mettere l’accento sulla contrapposizione tra le due bandiere – quella nazionale algerina e quella identitaria amazigh (comune a tutti gli amazigh del Nord Africa) –  è una chiara volontà di spingere a uno scontro tra gli estremisti dei due nazionalismi arabo e amazigh. Per deviare lo sguardo del popolo dalla luna di una Algeria libera e democratica che abbraccia tutte le sue componenti, verso il dito di una polemica su due pezzi di stoffa di colori diversi.

Se ci riesce in parte sui social media dove si scatena la guerra tra sciovinismi (probabilmente in gran parte alimentata ad arte da troll professionisti del regime, dai gruppi estremisti delle due tendenze e da Dio sa chi altro), in piazza non ci sono scontri. Anzi sono apparse un po’ ovunque scritte e slogan contro la politica della divisione. E gli unici a intervenire per arrestare che sventolava la bandiera amazigh sono stati gli agenti della polizia, in modo particolare ad Algeri, dove sono stati fermati circa 20 manifestanti.

Quale futuro per il movimento?

Il movimento è arrivato a un punto decisivo. La stanchezza si fa sentire e la difficoltà a esprimere una piattaforma e delle forme di rappresentanza largamente condivise cominciano a pesare sul morale delle truppe.

La società civile –  partiti, associazioni, sindacati, organizzazioni – cerca una forma di organizzazione e di piattaforma da proporre per un’eventuale trattativa con l’esercito e quello che resta del vecchio sistema,  ma è molto faticoso. Dal primo tentativo di mettersi insieme si è capito che dichiararsi tutti dell’opposizione è una parolona, ma che in sostanza non dice niente. Ora si sta arrivando all’idea che prima di trattare con chi ha il potere, l’opposizione deve prima chiarire le cose tra le sue componenti più forti: tra progressisti e conservatori, diciamo così e tra i più radicali e quelli che hanno in qualche modo collaborato o continuano a collaborare con il regime imposto.

L’importanza del ventesimo venerdì

Per questo venerdì 5 luglio c’è tanta carne sul fuoco. Il movimento deve prima di tutto dimostrare che la tattica del logoramento voluta dal regime non sta funzionando. Gli attivisti si aspettano una partecipazione da record.  Solo così si dimostrerà che il movimento c’è ed è unito.

Si aspetta il mantenimento del carattere pacifico, unitario e gioioso del movimento. L’obiettivo è quello di dare una base forte a un cambiamento su basi solide. Per rendere realtà il motto principale delle proteste: “Yetnehaw ga’”, Mandiamoli via tutti.

Solo allora, gli algerini sentiranno di aver raggiunto quell’obiettivo smarrito 56 anni fa: l’indipendenza vera e un’Algeria finalmente libera e democratica.