La biografia riportata sul sito della Fondazione Cipriani racconta che Luigi divenne operaio a 19 anni. “Fu un trauma la fabbrica, per quel ragazzo irrequieto e insofferente di tutto” e “la notte sognava, in un incubo senza fine”. Un incubo da cui uscì una prima volta. Ma, dopo qualche anno, ancora “l’angoscia, ancora gli incubi”. Stavolta ne uscì definitivamente, leggendo, studiando “analizzando, insieme alla storia, le cause della propria angoscia, che si ricollegava così chiaramente all’alienazione della sua classe”, capendo che “il riscatto di classe non può essere pensato che insieme al vissuto della gente”. La sua angoscia personale divenne politica, approdò nel sindacato di base e nella politica. Fino agli scranni parlamentari con Democrazia Proletaria. Dove l’operaio superò tanti dottori, studiò e analizzò, documentò e denunciò trame ed eversioni nere, il ventre oscuro che domina e opprime la democrazia e i più fragili, deboli, ultimi della società. Quell’angoscia divenne politica. Nel senso più alto e nobile del termine, quel senso oggi sempre più smarrito e accantonato nei sotterranei della storia. C’è stato un compagno che ha attraversato le latitudini di questa terra con passo tenace e forte, inquieto in ogni angolo e sempre in cerca di occhi diversi – ma ovunque dei parìa – e che ha avuto l’angoscia, il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia vissuta sulla propria pelle: Dino Frisullo. In maniera razionale e frenetica, appassionata e infuocata. Mai domo, mai fermo. Arrivando a vette che, oggi, di fronte ad uno scenario sempre più desolante e asfittico, appaiono impossibili anche solo da pensare. Qualcuno disse di essere realista e, per questo, di esigere l’impossibile. Una parola impossibile sconosciuta per chi visse fino in fondo, cancellando anche se stessi nel darsi tutto a tutti, fino a disegnare un qualcosa di così originale che le sue quotidiane realizzazioni furono descritte con una nuova parola: frisullate. E quindi te lo ritrovavi che si faceva da Bari a Roma in bicicletta per devolvere ad operai il rimborso del biglietto, a correre così freneticamente che arrivava alla fine di un convegno dov’era relatore (era stato chiamato in Questura da chi poteva aiutare solo lui) e ripartiva daccapo tutto, la mattina uscendo di casa potevi ritrovartelo addormentato sull’uscio perché era arrivato in piena notte e non voleva disturbare, a parlare contemporaneamente a 3 telefoni. E migliaia, forse milioni, di … frisullate.

La prima email della sua vita, lo documenta lo straordinario archivio di Sergio Briguglio, Dino la scrisse il 19 settembre 1998. Esattamente un anno prima Narcomafie pubblicò due inchieste. Senza i moderni mezzi della tecnologia, senza appunto neanche l’email, Dino fu il primo ad interessarsi del naufragio di Natale del 1996. Andò in Grecia a parlare con alcuni sopravvissuti, indagò, si documentò. E in pochi mesi ricostruì tutta l’odissea della nave e le tratte della holding degli schiavisti nel Mediterraneo. Oggi siamo in tempi in cui, per propaganda e non solo, tanti si riempiono la bocca di “business dell’immigrazione”. Uno dei capostipiti del business vero e documentato, al di là di tante menzogne odierne di regime, il colpevole di quel naufragio e del turpe traffico dietro, è ancora oggi – nonostante una condanna – a piede libero. Addirittura, su facebook si permette anche di insultare chi lo denunciò e fece condannare. Tra capi e capetti di quella cosa che solo con un’immenso sforzo di fantasia (e presunzione loro) possiamo definire ancora politica, c’è qualcuno che vuol occuparsene? C’è qualcuna o qualcuno che potrebbe essere capace di dare giustizia alle vittime di quel naufragio, fantasmi per troppi anni nella cronaca e nelle stanze del potere (allora amico per troppi)? Per carità, non è proprio obbligatorio il risultato finale, visto come siamo messi può bastare anche solo il pensiero …

Quella vicenda, tutto quello che venne dopo, l’impegno per il Kurdistan e contro la virata sicuritaria e disumana che stava nascendo in quegli anni, restituiscono un dato politico straordinario. La politica non dei massimi sistemi, non delle astrazioni e delle filosofie. Ma partendo dalla realtà – dal vissuto concreto e quotidiano – di chi vive ai margini, di chi subisce la guerra sociale ad ultimi e indifesi, degli impoveriti, dei parìa e dei senza patria. Dino era conosciuto e riconosciuto da senza casa, disoccupati, kurdi e pakistani, bengalesi e chissà ancora quanti altri perché viveva quel che vivevano loro quotidianamente, sulla loro pelle. Per Dino non esistevano i migranti e gli immigrati, gli extra comunitari o quel che vi pare. Esisteva Alì, Leyla, Huseyn, esistevano le persone e i loro occhi senza più lacrime, esisteva la sofferenza di persone con nomi, cognomi, vissuti che avevano bisogno non di carità pelosa e aiuto da un cappello ma di giustizia, condivisione, umanità. Che con loro e per loro desse tutto. E anche di più. 16 anni dopo la triste dipartita di Dino, quasi 23 anni dopo il naufragio di Natale, 27 anni dopo la fine della lotta terrena di Cippone, come acqua in un deserto senz’oasi è questo che manca, terribilmente, di più. Schiacciati tra due blocchi politici in realtà figli della stessa mala pianta, di un veleno sociale che ha disumanizzato tutto, di processi che hanno ribaltato tutto e sopravvivono di elezioni e ricerca di una identità smarrita, manca il riconoscere gli occhi di chi non ha più lacrime, il quotidiano di chi vive lontano dalla borghesia e dai palazzi, di chi non appartiene alla società e – anzi – viene da essa combattuto e perseguitato. Le “politiche” economiche e gli esodi migratori ne sono la più terribile dimostrazione. Come è possibile che la narrazione dominante sia o espulsioni di massa o reclusioni di massa, o cancellazione di tutto o mantenimento dello status quo, o difendere gli attuali mega centri (dai CARA ai CAS, compresi i più vergognosi che non sono molto diversi dal vecchio Regina Pacis) o l’incubo della cacciata totale? Come è possibile che quel che accade al di là del Mediterraneo, dalla Libia in giù sembra disinteressare sempre più? Ma veramente si pensa che l’alternativa possa essere o l’attuale esodo biblico e disumano o il filo spinato? E cosa accade nei territori da cui partono, quali interessi e brutalità (in)degne dei peggiori nazisti avvengono?

No, non possiamo arrenderci a tutto questo, non possiamo accettare che ci siano brutalità e disumanità, che non tutto possiamo fermare e quindi disinteressarci di qualcosa. Dino partì dai migranti che vivevano in Italia e arrivò in Kurdistan, denunciò i lager italici e si ritrovò nelle carceri turche. Viveva realmente e carnalmente l’internazionalismo perché con gli occhi e le voci di chi era arrivato qui volava nei loro Paesi, che diventavano i suoi Paesi. Chi si ritrova in un ospedale e non può curarsi, chi perde il lavoro e non sa più come sfamare la propria famiglia, chi vive la disperazione di non poter lavorare, chi non sa se domani avrà ancora un tetto, chi non riesce più a piangere neanche col cuore per quante lacrime disperate ha versato, chi ha subito torture e stupri, bastoni e fili spinati, ha visto morire le persone più care ed è arrivato ad aspettarla anche per sé per quanto la sua carne e il suo animo siano stati lacerati non è accettabile, è ingiusto e squallido non sia al primo posto. Non possono esserci bilancini o tattiche, attese o filosofie.

No, quell’angoscia è tutto, a quell’angoscia non può essere chiesto nulla, quell’angoscia, quel dolore, quella sofferenza deve conquistare totalmente menti e cuori, non lasciare dormire la notte. Non c’è altro di cui discutere, non c’è altro che deve interessarci prima, non può esserci da ragionare e analizzare. C’è solo da correre e soffrire, da donarsi o angosciarsi perché non si riesce a correre. Perché purtroppo questa nostra vita troppo spesso è troppo disgraziata e devastante, crudele e fatale.