Non si scappa solo dalla povertà, ma dalle attese deluse. Aiutare a casa loro vuol dire costruire opportunità, non dare palliativi.

Dall’Africa si emigra per ragioni economiche, per la guerra o per i cambiamenti climatici. Il dibattito, tuttavia, in Europa si concentra sui migranti economici. Cioè coloro che lasciano i loro paesi alla ricerca di condizioni economiche migliori.

Spesso non sono i più poveri, anzi. Di solito sono giovani che non riescono a soddisfare le aspirazioni che animano ogni giovane del mondo: studiare, trovare un lavoro, avere condizioni economiche e servizi adeguati alle esigenze normali di un essere umano.

Il “dataroom” di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera, evidenzia bene come negli ultimi sei anni, su 1 milione e 85 mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60% proviene da Paesi con un reddito pro-capite tra i 1000 e i 4000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca Mondiale per il continente africano.

Il 29% tra i 4 e i 12 mila dollari, ossia medio-alto; il 7% da paesi dove c’è un reddito alto, sopra i 12mila dollari, e solo il 5% dai paesi poverissimi, con un reddito sotto i mille dollari. In Italia questa percentuale scende addirittura all’1%.

Occorre, però, precisare che il reddito pro capite è un numero sulla carta, perché nella stragrande maggioranza dei paesi africani la distribuzione del reddito è una questione, appunto, solo di divisione matematica. Nella realtà, anche nei paesi il cui Pil cresce a due cifre, il 40% circa della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

Un caso concreto

Per capire meglio questo fenomeno basta prendere ad esempio la Costa d’Avorio, paese relativamente stabile che, superata la crisi politica del 2011, si è sviluppato a ritmi sostenuti, con una crescita del Pil in media tra 8-9%.

Un paese che, se si considerano questi numeri, fa invidia a molti paesi europei. Vista così la Costa d’Avorio può essere considerata la locomotiva, una sorta di Germania dell’Africa Occidentale.

Tuttavia, l’indice di sviluppo umano del Pnud è rimasto stagnante in questi anni di crescita, aumentando di un lieve 0,003% (al 172esimo posto nel mondo) e più del 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Questi indicatori – sommati alla giovane età della popolazione, il 50% dei 22 milioni di abitanti è al di sotto dei 35 anni di età – fanno della Costa d’Avorio uno dei paesi di migranti che sbarcano sulle coste del Mediterraneo, quindi anche in Italia, anche se nell’ultimo anno è uscita dal novero dei principali paesi di immigrazione.

Altri dati fanno di questo paese un motore economico della regione occidentale dell’Africa. La metà della massa monetaria dell’intera Comunità economica dell’Africa Occidentale (Umeoa), circola in Costa d’Avorio e più del 40% delle merci viene esportata dal porto di Abidjan, capitale economica del paese. Nonostante ciò ogni anno partono migliaia di persone rincorrendo il sogno europeo.

Proprio per tutte queste ragioni “il processo riformatore”, come ci spiega l’ambasciatore d’Italia nel paese, Stefano Lo Savio, “deve continuare attraverso politiche inclusive: redistribuzione della ricchezza, educazione, sanità, università, formazione tecnica. Oltre a questo la sfida è quella di sviluppare un’economia di trasformazione. Questo è possibile perché il paese ha buoni fondamentali economici”.

Sostegno del reddito, welfare adeguato

Tra i giovani, tuttavia, alligna un sentimento di sfiducia generalizzato. “Si parte per questo”, ci spiega il delegato di Terre des Hommes, Alessandro Rabbiosi, “piuttosto che per la mancanza di lavoro. In molti, anche tra quelli che partono, un lavoro lo hanno, ma qui gli sembra di vivere inutilmente”.

“Quelli più poveri, spesso, dicono: se mi garantiscono un salario minimo più alto (attualmente è di circa 100 euro al mese) io rimango. L’ambizione è più bassa e quindi un aumento del salario minimo soddisferebbe le sue ambizioni”.

“A chi, invece, ha investito sull’istruzione, il sistema non offre soddisfazione o prospettiva e quindi si vuole tentare la sorte. I giovani in particolare, non vedono prospettive concrete, hanno la percezione di vivere in un paese senza sbocchi concreti, incapace di soddisfare le loro ambizioni”.

Il nodo, dunque, è quello di creare le condizioni perché il paese possa offrire servizi – sanità ed educazione – adeguati alle esigenze della popolazione. Ancora oggi se hai i soldi ti puoi curare, altrimenti no.

Non da ultimo, occorre che lo Stato sia in grado di creare le condizioni economiche per sviluppare industria e lavoro. Il sostegno al reddito, se non è affiancato a un welfare state adeguato, da solo non frena la fuga dai paesi africani.

“Soldi distribuiti a pioggia potrebbero anche non servire a nulla”, prosegue il delegato di Terre des Hommes. “Non bisogna ragionare sull’emergenza ma sullo sviluppo sostenibile e di lungo periodo. Molti donors occidentali stanno riducendo l’impegno verso settori di interesse sociale come quelli della sanità, della scuola, dell’educazione e formazione professionale in generale. Settori fondamentali per la crescita del paese, e che potrebbero creare le condizioni per ridurre efficacemente il fenomeno della migrazione”.

I fenomeni migratori, tuttavia, debbono “essere gestiti alla radice”, come ricorda l’ambasciatore d’Italia. “E gli strumenti di cui si è dotata l’Unione Europea, come il Migration Compact, con i relativi fondi, sono efficaci e cominciano a vedersi gli effetti positivi. Il fenomeno deve essere governato dalla Ue, dall’Oim, dall’Unchr in partnership con i paesi di origine e di transito dei migranti”.

La Costa d’Avorio ha già rimpatriato dalla Libia quasi cinquemila propri cittadini e, grazie ai programmi di reinserimento finanziati con i fondi europei del Trust Fund for Africa, sono stati inseriti in programmi di formazione e riavviati all’impiego attraverso la concessione di microcrediti. Questo, però, fa parte dell’emergenza.

Ciò che conta, in ultima analisi, è non alimentare una guerra tra poveri che si contendono una zolletta di zucchero, mentre c’è chi si prende tutta la scatola.

In sintesi si può dire che lo schema potrebbe essere questo: Europa-Ong-Paese. L’Ong diventa una sorta di intermediario tra i donors e lo Stato, proprio perché può presentarsi meglio come attore neutrale sia verso le popolazioni sia verso le Istituzioni di entrambi i lati e, inoltre, negli anni ha appreso a conoscere il territorio e le sue problematiche e può, quindi, operare per far si che gli investimenti possano rafforzare le misure in corso o in via di definizione affinché raggiungano il maggior numero possibile di persone e non finiscano dispersi nei meandri della burocrazia e della farraginosa gestione delle istituzioni statali.

I risultati, è evidente, non si potranno vedere nell’immediato, ma sul lungo periodo. Questo è inevitabile se si vuole che le riforme siano strutturali. L’aiuto allo sviluppo deve avere questa prospettiva. È altrettanto evidente che ciò non paga dal punto di vista dei consensi elettorali in un clima, come quello attuale, di campagna elettorale permanente.

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