Angela Caponnetto è una giornalista di RAINews24 e una collaboratrice di Articolo 21, nostro partner.  Angela interpreta il suo giornalismo con un particolare contatto diretto con la notizia dedicandosi da diverso tempo, al tema dei migranti.

E’ tanto che segui da vicinissimo il tema degli sbarchi e dell’immigrazione. Qual è la tua percezione del fenomeno? Cosa sta accadendo?

Non è una percezione, quanto un assemblamento di fatti raccolti nel corso di un lungo percorso seguendo questo fenomeno quando ancora sembrava lo potessimo gestire. Quando i nostri militari della Guardia Costiera, Marina Militare e Guardia di Finanza impegnati nel soccorso a mare venivano considerati eroi per aver salvato migliaia di vite umane. Quello che ho potuto verificare è che ad un certo punto, a causa di una campagna contro l’immigrazione in particolare proveniente dall’Africa, i governi dei paesi del Mediterraneo hanno cercato di chiudere i confini con l’intento di guadagnare consensi tra l’opinione pubblica. Le navi militari si sono allontanate dalle coste libiche, lasciando quell’area alle competenze di una flottiglia libica che non riesce a contenere le partenze né a portare in salvo tutti i migranti sulle imbarcazioni messe in mare dai trafficanti.

Le uniche navi rimaste sono quelle delle organizzazioni umanitarie, decimate dai continui attacchi delle procure italiane, che non hanno ancora aperto un processo con rinvii a giudizio, ma che inevitabilmente tengono ferme le uniche rimaste per le indagini di rito. Si è caricata la “colpa” delle migrazioni dalla Libia alla presenza di navi Ong che in realtà hanno portato in Italia meno del 20% del totale degli sbarchi. E la dimostrazione che non c’è nessun legame tra le Ong e i flussi migratori è che anche quando non ci sono navi Ong in mare, i trafficanti continuano a lavorare indisturbati. A maggio sono arrivate circa 700 persone in Italia, meno di 150 con le Ong, il restante arrivato da solo. E aumentano le vittime, che dall’inizio dell’anno a oggi sono già più di 500, una cifra enorme se si considera che la percentuale degli sbarchi è scesa del 90%

Gli sbarchi non si sono mai fermati, come denunciavi in un tuo articolo un paio di mesi fa: perché ci sono sbarchi di serie A e di serie B?

Più che sbarchi di serie A e serie B, direi che ci sono sbarchi che interessano a certa politica per mettere il mostra i muscoli e altri che si evita scientemente di pubblicizzare perché dimostrano che è impossibile chiudere i porti di un paese circondato dal mare e che questo fenomeno non si può fermare con proclami e attacchi alla solidarietà. Perché mentre ci si concentra sulla persecuzione delle Ong si continua a sbarcare in ogni parte del sud della Penisola. Anzi, da quando non ci sono più le ONG gli sbarchi fantasma sono aumentati. Tra l’ altro, mentre prima arrivavano solo da Tunisia, Algeria e Turchia, ora arrivano anche dalla Libia. Niente di nuovo, si torna come ai vecchi tempi: e non promette niente di buono. Perché si torna al sistema usato dai trafficanti prima del 2013, ovvero barconi con centinaia di persone trainati fino alle acque internazionali e poi lasciati andare alla deriva, con il rischio di naufragi di cui abbiamo già triste memoria.

Proprio in questi giorni a Lampedusa, mentre la stampa batteva notizie sugli sbarchi dalle navi umanitarie Mare Jonio e Sea Watch3 – entrambe ferme al porto di Licata sotto sequestro probatorio per le indagini della procura di Agrigento – io stessa riuscivo a filmare l’ingresso di altre imbarcazioni arrivate in autonomia con decine di migranti arrivati dalla Libia. Eppure tutti erano concentrati su numeri addirittura più bassi, sbarcati dalle Ong che hanno osato entrare in acque territoriali nonostante il divieto (solo alle Ong) di entrare in Italia e di sbarcare dei disgraziati, tra cui donne, bambini e disabili.

Insomma, non è che ci sono sbarchi di serie A e di serie B: ci sono sbarchi che servono a chi ci specula sopra e altri che si cerca di far ignorare perché mostrano il fallimento di certa politica. E, si badi bene, non è solo questo governo che opera in questo modo. Era così anche con il precedente governo e con il precedente Ministro dell’Interno, quello che ha fatto gli accordi con la Libia per il contenimento dei flussi. Quando in una conferenza stampa ad agosto del 2017 chiesi al ministro Marco Minniti come mai si concentrava solo sulla Libia e sulle Ong, ma non considerava le decine di sbarchi fantasma dalla Turchia, Algeria e Tunisia, trovò opportuno non rispondere a questa domanda.

Come collaboratrice di Articolo21 come vedi la copertura generale sul tema? In cosa la stampa italiana è carente dal punto di una corretta e completa informazione?

C’è un’ignoranza generale sul tema. In passato abbiamo sbagliato raccontando gli sbarchi senza “anima”: prima che gli italiani cominciassero ad essere insofferenti verso i migranti, li abbiamo fatti vedere mentre scendevano a migliaia nei nostri porti. Identificandoli come numeri e non come persone, con le loro storie, sogni ed emozioni, ma soprattutto senza spiegare perché andavano via.

Oggi è più o meno lo stesso: si scrive la notizia sul momento, senza analizzarla nella sua essenza. Faccio un esempio: l’ultima notizia tenuta per giorni in prima pagina, quella sulla Sea Watch che entra in acque territoriali con 65 persone salvate a 30 miglia dalla Libia. Pochi, pochissimi hanno raccontato questa vicenda spiegando perché la Ong ha scelto di entrare violando le direttive del Ministero dell’Interno. Spiegando quali sono le leggi del mare che la Ong ha rispettato, perché oltre a donne, bambini e disabili, anche gli uomini giovani e forti sono comunque vulnerabili. Perché queste persone non si possono riportare indietro in Libia, dove se prima nei centri di detenzione anche ufficiali era un inferno ora c’è l’apocalisse. Alcune testato lo hanno fatto e molto bene, altre – sopratutto televisive – si sono limitate ad una narrazione asettica, se non imprecisa.

Ho letto i titoli di alcuni giornali: “Libici salvano 200 migranti su gommoni al largo della costa nordafricana.” Salvano? Ecco. Una delle colpe più grandi che abbiamo noi cronisti è un errato uso delle parole. Perché in questo caso usando un eufemismo, sarebbe stato meglio dire: “riportano indietro”.
Insomma cominciamo tutti ad usare bene le parole. A partire da migranti: una parola che sembra identificarsi con manichini. Meglio “persone migranti” che però quando arrivano in Europa diventano richiedenti asilo e/o rifugiati. Nonostante alcuni giornalisti schierati continuino a chiamarli clandestini.

Un giornalista non è mai neutrale, può tentare di descrivere ma deve sempre prendere posizione: sei d’accordo con questa affermazione? E, se sì, cosa comporta nella tua attività professionale?

Se si tratta di una posizione politica, credo non sia affatto necessario schierarsi. Io mi schiero dalla parte della vita, della dignità e del rispetto della vita umana. Mi schiero dalla parte del rispetto del Diritto, della Giustizia, della Legalità. Io sono un cittadino del Mondo che è nato in Italia, paese che amo e rispetto. Ma questo non vuol dire che non rispetto il resto del pianeta Terra e chi è nato in altri paesi diversi dal mio. Se questo vuol dire essere schierato: ebbene sì, lo sono. Sono schierata con i miei simili, gli esseri umani che hanno cuore, cervello e anima.

Tu sei una giornalista in prima linea, con il giubbotto di salvataggio addosso. Come cambia la tua vita raccontare l’immigrazione, gli sbarchi, conoscere e vedere da molto vicino quelle persone?

“Queste persone” siamo noi. Oggi sono loro, ma domani puoi essere tu o potrei essere io. Finché non ci renderemo conto di questo non capiremo mai il fenomeno migratorio. La mia vita è decisamente cambiata proprio quando ho affrontato una parte del loro viaggio con loro. La prima nel 2015 su una nave della Guardia di Finanza che di notte affiancava un barcone a 12 miglia dalle coste libiche. Era pieno, trecento persone circa, con donne e bambini. Urlavano, si arrampicavano sulle cime, i bambini sotto shock. E ho visto piangere uomini in divisa che quella sera avevano salvato tutti, ma che ricordavano di “quella volta che vidi annegare un bambino”.

Quella sulle navi è la parte più bella, se ci pensate, quella in cui si vive in un microcosmo di solidarietà, tutti salvi su una nave in mezzo al mare in cui ci sono solo persone, senza differenza alcuna tra loro, solo Persone.

E quel mare che fino a quel momento faceva paura, diventa un ponte liquido verso la salvezza. Con loro questo ho potuto condividerlo, come ho condiviso il percorso seguente una volta a terra e come ho condiviso anche la scelta di partire quando sono andata in Africa in Senegal e Gambia nei villaggi da cui molti di questi giovani se ne vanno. Non ho condiviso – grazie a Dio – gli orrori del viaggio precedente: il deserto, le torture in Libia, la paura di annegare in mare. Ho visto svenire bambini appena messo piede sulla prua della nave e poi riprendersi con una barretta energetica scorrazzando per la nave come nulla fosse. Li ho visti giocare insieme ad altri di altre nazionalità e comunicare con una sola lingua: quella dell’innocenza. Ho visto pregare uno accanto all’altro, con un Crocifisso o il Corano: ho visto piangere, ridere, baciare la terra, cantare di gioia. Ho ascoltato le loro storie.

Consiglio a tutti di fare un passo verso queste persone, guardarle negli occhi e ascoltarle. Anche i più freddi e scettici imparerebbero qualcosa. E forse si aprirebbero all’altro con meno diffidenza.