Mentre tutti guardavamo ai migranti il governo Salvini-Di Maio si trasformava in avvelenatore di terre. Da cittadini, da attivisti, da giornalisti ci siamo concentrati sul 49, il numero che identifica tanto i migranti costretti per oltre due settimane sulle navi Sea Watch 3 e Sea Eye che i milioni di euro rubati dalla Lega ai cittadini italiani attraverso la truffa sui rimborsi elettorali 2008-2010 (video TPI; l’Espresso). Mentre accusavamo il ministro dell’Interno Salvini di violazione dei diritti umani, il governo nascondeva un altro numero, altrettanto importante, tra le righe del “decreto Genova”: quel 1.000 che innalza il limite di inquinanti in fanghi di depurazione e gessi di defecazione utilizzabili come fertilizzante agricolo. Mentre accusiamo l’esecutivo di indossare la divisa del carceriere razzista, il governo italiano indossava, anche, gli eleganti abiti del trafficante di rifiuti.

Nascondere reati tra le righe di una legge

Decreto legge n.109 del 28 settembre 2018, art.41 «Disposizioni urgenti sulla gestione dei fanghi di depurazione»: è a questo punto del cosiddetto “decreto Genova” – con il quale viene formalmente avviata la ricostruzione dopo il crollo del ponte Morandi (14 agosto 2018) – che il governo «al fine di superare situazioni di criticità nella gestione dei fanghi di depurazione» decide di innalzare di ben venti volte i limiti delle sostanze inquinanti tollerabili in tali fanghi per essere utilizzabili in agricoltura.

La normativa italiana – che si muove nell’ambito della Waste Framework Directive europea (Direttiva 2008/98/CE), la stessa da cui deriva il mai realmente recepito principio del “chi inquina paga” – classifica i fanghi di depurazione come “rifiuti speciali” (Codice Europeo Rifiuti EER 190805), risultanti dal trattamento delle acque reflue civili ed industriali che possono essere usati come fertilizzante su terreni di cui è necessario modificare pH, salinità e tenore di sodio. Se trattati con le giuste procedure e limitazioni, i fanghi non sono pericolosi né per i terreni né per la salute, nonostante derivino comunque dal trattamento di prodotti farmaceutici, plastiche, detergenti, degli scarti alimentari o delle pelli. Sono ampiamente usati in coltivazioni come quelle del riso, dei pomodori, della soia o dell’erba medica poi trasformata in fieno e usata per l’alimentazione degli animali.

Funziona così: dall’impianto di depurazione il rifiuto viene trattato in appositi impianti di recupero con calce viva o acido solforico e poi lasciato per qualche tempo in apposite biocelle, così da ridurne quanto più possibile il “potere fermentiscibile” e l’impatto sanitario. Passati i controlli di qualità, il fango è pronto per essere usato come fertilizzante.

Da questa procedura deriva anche il gesso di defecazione, una poltiglia grigia dall’odore acre che subisce quasi lo stesso trattamento dei fanghi e sempre più usato come fertilizzante proprio in sostituzione dei fanghi di depurazione. Entrambe le sostanze rendono infatti i terreni più morbidi, più fertili e meno soggetti a crisi idriche, a patto di sopportarne la puzza, come sanno bene i cittadini di zone come Ca’ Emo (Rovigo); Fabbrico (Reggio Emilia); Monticelli Pavese (Pavia) o Calcinato (Brescia), aree in cui l’uso agricolo di fanghi e gessi è particolarmente diffuso.

Il “Rapporto rifiuti speciali 2018” (pdf) dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) basato su dati del 2015-2016 – gli ultimi disponibili – riporta, sul piano nazionale:

  • quasi 3,2 milioni di tonnellate fanghi di depurazione prodotti dalle acque reflue urbane (Codice EER 190805), +3,7% rispetto al 2015;

  • più di 76.000 tonnellate di fanghi pericolosi prodotti dal trattamento di acque reflue industriali (Codice EER 190811 e 190813);

  • più di 806.000 tonnellate di fanghi non pericolosi derivanti dal trattamento di acque reflue industriali.

 

 

Lombardia (452.000 tonnellate, pari al 14,2% del totale nazionale) ed Emilia Romagna (431.000 tonnellate; 13,5%) sono le regioni in cui, nel biennio preso in esame da Ispra, c’è stata la più alta produzione di fanghi da acque reflue urbane, seguite da Veneto (359.000 tonnellate; 11,3%) e Lazio (305.000 tonnellate; 9,6%).

Per quanto riguarda invece i fanghi prodotti dal trattamento delle acque reflue industriali, il Veneto è il maggior produttore di fanghi “prodotti dal trattamento biologico delle acque reflue industriali, contenenti sostanze pericolose” (Codice EER 190811, costituiscono l’1,9% dei fanghi pericolosi) con 1.009 tonnellate su un totale nazionale di 76.462 tonnellate; la Lombardia (14.680 tonnellate) ha invece il “primato tossico” per i fanghi “contenenti sostanze pericolose prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali (Codice EER 190813), che costituiscono il 98,1% della produzione nazionale di fanghi pericolosi.

Piemonte (180.250 tonnellate su 382.082 totali, 47,17%) e Toscana (84.127 tonnellate, 22%) guidano la produzione di fanghi non pericolosi “prodotti dal trattamento biologico delle acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 190811” (EER 190812. che rappresenta il 47,4% del totale dei fanghi non pericolosi); Lombardia (81.517 tonnellate su 424.251; 19,21%) e Veneto (70.284 tonnellate; 16,57%) le regioni dove si producono maggiormente fanghi non pericolosi “prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali, diversi da quelli di cui alla voce 190813” (EER 190814, 52,6% della produzione nazionale).

La sanatoria Salvini-Di Maio sui fanghi tossici

Innalzare da 50 milligrammi per chilo a 1.000 mg/kg è di fatto una sanatoria – oltre che un non rispetto del “principio di precauzione” europeo – che permetterà un maggior uso nei fanghi di sostanze tra le più nocive per la salute umana come idrocarburi policiclici aromatici (Ipa); diossine, cromo (anche cromo esavalente) selenio, arsenico, policlorobifenili (Pcb, il cui uso è illegale addirittura dal 1984). Parliamo di sostanze chimiche note per la loro cancerogenicità, sostanze lipofile (che si sciolgono nei grassi e possono dunque accumularsi nel tessuto adiposo) o di cui è nota la correlazione con problemi di insufficienza renale, respiratori o all’apparato riproduttivo. Sostanze che entrano nella catena alimentare e che, in molti casi, sono anche interferenti endocrini e dunque agiscono sullo sviluppo umano. La dottoressa Fiorella Belpoggi, direttrice del centro di ricerca sul cancro Cesare Maltoni dell’Istituto Ramazzini, ha individuato nel decreto (tabella 1, allegato B):

  • 13 sostanze “Classe 1”: sicuramente cancerogene;

  • 10 sostanze “Classe 2A”: probabili cancerogeni;

  • 24 sostanze “Classe 2B”: possibili cancerogeni.

Ai problemi di salute pubblica dati da coltivazioni inquinate e pascoli infetti – come nel dicembre 2016 dimostra l’operazione “Gamma Interferon” promossa dalla Procura di Patti (Messina) – si aggiungono quelli economici derivanti sia dal conseguente aumento della spesa sanitaria, tanto delle famiglie quanto dello Stato, che dall’accesso illegittimo ai fondi pubblici europei, su cui è noto l’interesse delle (agro)mafie, come ben dimostra l’allontanamento politico di Giuseppe Antoci dalla presidenza del “Parco dei Nebrodi”.

Una legge “ad inquinantum”

Così come il condono edilizio per le case abusive ad Ischia potrebbe leggersi anche come “premio elettorale” per la vittoria del Movimento 5 Stelle sull’isola (38,91% dei voti contro il 37,97% del centrodestra, arrivato secondo), così l’art.41 del “decreto Genova” potrebbe trovare natali tra il Veneto e soprattutto la Lombardia, storici feudi elettorali della Lega, vera guida dell’attuale governo.

Proprio la Regione Veneto, nel luglio 2017 ha posto uno di questi inquinanti – le sostanze perfluoroalchiliche (Pfas), dai più svariati utilizzi e note per la loro bioaccumulabilità – al centro di uno screening sulla popolazione nata tra il 1951 e il 2002, riscontrandone valori 30-35 volte più alti del normale che hanno obbligato a dar vita ad un programma di lavaggio del sangue (“plasmaferesi”) per evitare insorgenza di patologie legate al loro impiego. Il C8 Healt Project, che in Ohio e West Virginia ha interessato circa 70.000 persone esposte a pfas tramite acqua potabile a partire dagli anni Cinquanta, nel 2012 ha evidenziato l’incidenza di questo agente tossico su ipercolesterolemia, ipertensione in gravidanza, malattie della tiroide oltre a tumori al rene e al testicolo e problemi neurologici nei neonati. Gli studi fin qui fatti non sono però riusciti a definire come certo il rapporto di causa-effetto tra sostanza e malattia così che, ad oggi, il loro impiego non è normato. Il raggiungimento del limite “zero Pfas” è alla base della creazione di comitati cittadini che nei mesi scorsi si sono rivolti anche all’Unione Europea.

Unione che, peraltro, sull’uso dei fanghi di depurazione in agricoltura dimostra di non dare ai Paesi membri una linea univoca: se infatti la Germania, l’Olanda o la Svizzera preferiscono ricorrere ai termovalorizzatori, l’Estonia o la Finlandia ne fanno ampio uso sotto forma di compost, mentre in Portogallo, Irlanda, Regno Unito e Spagna i fanghi vengono spanti sui terreni agricoli e l’Italia – insieme a Romania, Malta e Bosnia-Erzegovina – preferisce soprattutto lo smaltimento in discarica[1].

Secondo i dati raccolti nel 2016 dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera, fino al dicembre 2017 Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico, AEEGSI) l’Italia recupera il 74% dei fanghi prodotti – smaltendone in discarica il 25% – per lo più trasformandoli in compost (46%) e destinandone il 38% allo spandimento in agricoltura.

Un “imbroglio” linguistico per aiutare chi inquina?

Nel settembre 2017 la Regione Lombardia (giunta Maroni) delibera di innalzare a 10.000 mg/kg di sostanza secca il limite per gli idrocarburi presenti nei fanghi di depurazione. Una decisione contro cui sono ben 51 i sindaci che fanno opposizione ricorrendo al Tar lombardo, che cancella la norma – in base alla legge 152/2006 e ad una serie di decisioni della Cassazione – e fissa a 50 mg/kg il limite oltre il quale è necessario bonificare.

È molto interessante, nel passaggio tra delibera regionale e legge nazionale, notare un passaggio linguistico che solo in apparenza sembra innocuo: la Regione Lombardia fissa i limiti sulla «sostanza secca», cioè su un numero certo, mentre l’art.41 del “decreto Genova” parla di limiti sulla «sostanza tal quale», più facilmente aggirabili diluendo la concentrazione dei rifiuti con acqua. Qual è la differenza? 1.000 mg/kg di sostanza tal quale equivalgono a 5.000-8.000 mg/kg di sostanza secca. Ciò significa che la legge nazionale è ancor più inquinante del testo deliberato dalla Regione Lombardia, regione di traino del fenomeno tanto da ricevere fanghi anche da Veneto, Liguria, Lazio e Puglia. Capitale di questa “Italia dei Fanghi” è Pavia, dove si registrano oltre 300 aziende che vi fanno ricorso.

Aggirare i controlli violando il diritto alla conoscenza

Il già citato “Rapporto rifiuti speciali 2018” dell’Ispra evidenzia anche un altro dato interessante: molti produttori indicano i fanghi poi utilizzati in agricoltura come destinati ad altro uso nella dichiarazione MUD – il “Modello unico di dichiarazione ambientale” presentata da produttori di rifiuti, trasportatori e discariche alla Camera di Commercio nella quale i rifiuti vengono raggruppati per tipologia – usando non l’operazione “R10” (“Trattamento in ambiente terrestre a beneficio dell’agricoltura o dell’ecologia”) ma operazioni come “Scambio di rifiuti per sottoporli ad una delle operazioni da R1 a R11”[2] (“R12”), “Riciclo/recupero delle sostanze organiche non usate come solventi” (“R3”) o “Messa in riserva di materiali per sottoporli a una delle operazioni che figurano nel presente elenco” (“R13”). È in questo modo che, nominalmente, la Lombardia non risulta usare fanghi di depurazione in agricoltura pur essendone la maggior utilizzatrice

A peggiorare una situazione di inadeguatezza delle «condizioni fisiche» di reti di distribuzione e condotte fognarie – alcune delle principali criticità riscontrate da Arera[3] – si aggiunge un contesto di controlli particolarmente inefficace: in base al decreto legislativo 99/1992, basato su ricerche scientifiche dei primi anni Ottanta, le analisi di idoneità sull’uso agricolo dei fanghi di depurazione sono fatte dagli stessi impianti in cui si producono, in un classico sistema “all’italiana” in cui controllato e controllore sono la stessa cosa. Stando al dettato della norma, i controlli sarebbero possibili sui soli metalli, non essendo chiaramente prevista la ricerca né l’analisi di altre sostanze inquinanti. Recependo la Direttiva 86/278/CEE, il D.Lgs 99/1992 vieta inoltre lo spandimento qualora i fanghi contengano «sostanze tossiche e nocive e/o persistenti, e/o bioaccumulatori in concentrazioni dannose per il terreno, per le colture, per gli animali, per l’uomo e per l’ambiente in generale», a meno che tali sostanze non superino determinati limiti imposti dall’allegato 1B della stessa legge. Negli anni il decreto del 1992 non è stato aggiornato nei criteri tecnici né nelle conoscenze scientifiche, lasciando così sempre più la regolamentazione della materia alle Regioni.

E se non ci sono analisi non ci sono nemmeno dati certi da poter diffondere: nemmeno l’Arpa Lombardia può mappare con certezza i campi concimati con questi prodotti, perché legalmente non esiste alcun obbligo di comunicazione. E se non ci sono dati i cittadini vengono informati poco e male, reiterando il “paradigma Terra dei Fuochi”, in cui una informazione tempestiva, accurata e attenta al territorio vent’anni fa avrebbe potuto evitare la crisi sanitaria ed ambientale che oggi affrontano le popolazioni locali.

All’evidente danno si aggiunge poi la beffa dell’applicazione del principio del “favor rei”, per il quale se cambia la norma si applica quella più favorevole all’imputato (art.2 codice penale). Diventa così difficile dar torto a chi parla di vera e propria sanatoria dell’articolo 41, in primis in favore della Lombardia.

Sanatoria che dal ° gennaio 2019 può contare anche sulla cancellazione del sistema di tracciabilità dei rifiuti speciali – il controverso “Sistri”, cancellato dal decreto “Semplificazioni” (art.6 del Decreto legge 135/2018) – che permetteva di monitorare in tempo reale il tragitto dei rifiuti dal produttore al consumatore finale. Il governo nato per metà da un sito internet decide così di abrogare un sistema informatizzato per ritornare alla compilazione di registri cartacei, favorendo quei gruppi che negli anni, come evidenziano Walter Ganapini e Rosy Battaglia su Valori.it, hanno più volte tentato di smantellare l’intero sistema di controllo, in alcuni casi distruggendo a martellate gli apparati di controllo remoto montati sui camion.

Ecomafia&Industria

Ciò significa, di fatto, rendere legali le tante “Terre dei Fuochi” su cui è stata scientemente costruita la politica industriale italiana degli ultimi decenni da Brescia a Taranto, dalle zone di Augusta, Melilli e Priolo fino al Veneto. Una politica industriale nella quale – emblematica la vicenda di Salvatore Gurreri a Marina di Melilli – la manovalanza mafiosa ha servito tanto gli interessi di imprenditori e agricoltori conniventi quanto quella di politici corrotti o “deviati” al Segreto di Stato.

I reati legati al ciclo dei rifiuti rimangono ancora di alto interesse tanto per le mafie quanto, di conseguenza, per le Procure, antimafia e non: tra il gennaio 2010 e il maggio 2018 – evidenzia il rapporto “No Ecomafia 2018” di Legambiente – sono state ben 449 le inchieste giudiziarie sulla corruzione nel settore ambientale, che oltre a coinvolgere 87 procure (su 140) hanno portato a 3.478 arresti e 4.295 denunce, di cui 538 ordinanze di custodia cautelare nel solo 2017 (+ 139,5% rispetto al 2016). ben 76 sono le indagini per “traffico organizzato di rifiuti”, che costituiscono il 24% di tutti i reati commessi dalle ecomafie, che nel 2017 hanno “pesato” sui contribuenti per 14,1 miliardi di euro, +9,4% rispetto al 2016. Un “traffico organizzato” che, comunque, dal 2002 ad oggi ha visto il sequestro di circa 47,5 milioni di tonnellate di rifiuti, di cui il 43% è costituito proprio dai fanghi di depurazione.

Mentre in sede giudiziaria vengono accertati i rapporti Lega-‘ndrangheta (l’Espresso/1; l’Espresso/2; Linkiesta; Il Secolo XIX – Genova) e forti sono i dubbi sui flussi di voto anche per camorra e cosa nostra (NextQuotidiano; Affaritaliani; Gli Stati Generali; il Giornale;), con l’innalzamento dei limiti di sostanze inquinanti nei fanghi di depurazione il regalo alle ecomafie è duplice: domani con le bonifiche – business su cui gli interessi dei clan sono noti da tempo, come ben evidenziavano nel 2013 Andreina Baccaro e Antonio Musella ne “Il Paese dei Veleni” (Round Robin Editrice) – oggi con la cessione a titolo gratuito dei fanghi di depurazione. Smaltirli in discarica costa agli impianti di depurazione tra il 15% e il 40% dei costi di gestione, molto di più dei 300 euro ad ettaro pagato ad agricoltori conniventi per spandere fanghi e gessi sui loro terreni, anche quando questi provengono da ditte posto sotto indagine o se ad essere gettati sui loro terreni sono direttamente fanghi non trattati.

Come si fanno sparire 6.000 camion di rifiuti?

È questa l’accusa principale mossa dalla Procura di Rovigo ai proprietari della Co.Im.Po e della Agribiofert, che tra il 2013 e il 2015 avrebbero sparso 13.000 tonnellate di rifiuti non trattati su terreni di loro proprietà. Le due società sono inoltre accusate di molti altri reati legati al traffico di rifiuti, realizzati anche in correità con alcuni laboratori di analisi: cambi nelle bolle di accompagnamento dei carichi; falsificazione dei pesi; manomissione di analisi e certificazioni; mescolamento di rifiuti di varia origine per renderne impossibile la tracciabilità.

Ma è una nube tossica sviluppatasi nello stabilimento Co.Im.Po. di Ca’ Emo in seguito al versamento di acido in maniera non corretta in una delle vasche usate per trasformare i rifiuti speciali in fanghi – presa in affitto dalla Agribiofert – che porta la Procura ad accusare le due società della morte, il 22 settembre 2014, di quattro operai: Nicolò Bellato (28 anni); Paolo Valesella (53); Marco Berti (47); Giuseppe Baldan (48). Con questo sistema, denunciano ancora gli inquirenti, tra il 2010 e il 2014 le due società avrebbero fatto sparire 150.000 tonnellate di fanghi di depurazione: l’equivalente di 6.000 camion di rifiuti. Dal procedimento penale nascono altri quattro filoni d’indagine tra Rovigo e gli uffici della Direzione Distrettuale Antimafia di Venezia e Firenze – dove la Co.Im.Po ha operato su terreni affittati anche al triplo del prezzo medio – per reati di corruzione negli uffici amministrativi e legati allo smaltimento dei rifiuti.

Falsificazione dei pesi, manomissione di analisi e certificazioni, rifiuti mischiati ad altri per farne perdere la tracciabilità sono alcuni dei reati che nel luglio 2016 portano il Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri di Milano, su mandato della locale Procura, ad indagare sul Centro Ricerche Ecologiche Spa (C.R.E. Spa), uno dei più grossi impianti per il trattamento di fanghi di depurazione della Lombardia che, evidenziano gli inquirenti, tra il 2012 e il 2015 avrebbe sversato illecitamente circa 110.000 tonnellate di fanghi di depurazione su terreni tra Lodi, Cremona e Pavia. Operazione che avrebbe generato per l’azienda un profitto illecito di 4.500.000 euro.

Il sistema di connivenza tra mafie, politica e imprenditori (Valori/1; Valori/2) è stato perfettamente descritto dall’inchiesta “Bloody Money”, realizzata nel febbraio 2018 da Fanpage.it grazie all’aiuto dell’ex boss della camorra – e controverso “insider” – Nunzio Perrella (Fanpage; Lettera43). Quello dei rifiuti è notoriamente un mercato più redditizio del traffico di droga in cui gli interessi illeciti dell’imprenditoria criminale si legano con poltrone politiche corrotte e laboratori d’analisi conniventi, a tutto vantaggio di ecomafie e zoomafie (.pdf).

Rifiuti tossici, diritto alla conoscenza e “post-verità”: dopo la “Terra dei Fuochi” possiamo evitare la “Terra dei Fanghi”?

Negli anni Novanta l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano (governo Prodi, maggio 1996 – ottobre 1998) impedì attraverso il segreto di Stato di conoscere l’avvelenamento delle terre campane ad opera del clan dei casalesi; vent’anni dopo ci siamo trovati con una bomba ecologica e sanitaria che oggi chiamiamo “Terra dei Fuochi”. Il governo Salvini-Di Maio, attraverso l’art.41 del “decreto Genova”, fa una cosa molto simile ma alla più completa luce del sole, usando la vicenda dei 49 migranti come fattore di distrazione.

Oggi, però, possiamo evitare di attendere due decenni per denunciare le connivenze per raccontare le (future?) “emergenze”, per rendere noti gli sversamenti delle sostanze tossiche, fino ad arrivare a modificare la legge e ripristinare i livelli di non pericolosità. Lo stesso governo, attraverso il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – ed ex referente sulle indagini per ecomafia della Direzione Nazionale Antimafia – ha dichiarato che in futuro verrà fatto un «nuovo decreto, che legge organica di riforma», definendo inoltre l’articolo 41 del “decreto Genova” non una autorizzazione ad inquinare ma «il suo contrario». I tempi, naturalmente, non sono stati resi noti, così che tali parole risuonino come l’ennesimo cent speso dal governo Salvini-Di Maio al ministero della Post-Verità. (video Luigi Di Maio; fact-checking Sole24Ore)

NOTE

[1] – “Smaltimento fanghi di depurazione – Normativa, costi, stato di fatto e tendenze” – Angelamaria Groppi, Politecnico di Milano per Direzione sistema idrici, Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, Milano, 19 gennaio 2017 (.pdf);

[2] – Ovvero: “Utilizzazione principale come combustibile o altro mezzo per produrre energia” (R1); “Rigenerazione/recupero di solventi” (R2); “Riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche)” (R3); “Riciclo/recupero dei metalli o dei composti metallici” (R4); “Riciclo/recupero di altre sostanze inorganiche” (R5); “Rigenerazione degli acidi o delle basi” (R6); “Recupero dei prodotti che servono a captare gli inquinanti” (R7); “Recupero dei prodotti provenienti dai catalizzatori” (R8); “Rigenerazione o altri reimpieghi degli oli” (R9); “Spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura” (R10); “Utilizzazione di rifiuti ottenuti da una delle operazioni indicate da R1 a R10” (R11). La classificazione è definita dall’allegato C D. Lgs 152/06;

[3] – Groppi, op.cit.