In Brasile è in corso un progetto autoritario. La nomina del giudice Moro a super ministro della Giustizia e degli Interni è soltanto uno degli aspetti. Le istituzioni entrano in contraddizione tra loro, la prova di ciò sta nella sospensione da parte della Corte Suprema degli atti arbitrari di intervento poliziesco nelle università, quando decine di atenei hanno subito invasioni, perquisizioni e il sequestro di materiale politico, secondo loro, legato a specifici partiti: una diretta intimidazione al corpo docente con l’arresto di alcuni professori accusati di propaganda sediziosa. La divisione tra le istituzioni apre la strada a chi controlla l’informazione, a chi gestisce il sottobosco tenebroso della politica. Ma il vero orrore deve ancora venire. Il vero orrore è il piano economico che sostiene il progetto politico di facciata. Un esempio su tutti, la nuova legge che regola i rapporti di lavoro, l’abolizione del contratto per esporre i lavoratori all’arbitrio di una classe padronale storicamente fondata sullo sfruttamento della manodopera schiava. La notizia dell’estinzione del Ministero del Lavoro è stata accettata passivamente, ripeto: per l’estinzione del Ministero del Lavoro, nessuna reazione degna di nota. “Il lavoratore deve decidere se rinunciare ai suoi diritti ma avere il lavoro, oppure avere i diritti ed essere disoccupato”. Sì, il nuovo presidente lo ha detto, lo ha scritto. L’orrore economico sarà implementato dalle transnazionali del petrolio, dalle grande imprese estrattiviste, dell’agro business, dal progetto di privatizzazione delle pensioni, della salute pubblica e della scuola di ogni ordine e grado, dalla materna all’università.
La retorica, le minacce, le promesse di repressione e bando di ogni opposizione attraverso l’annichilazione fisica e l’esilio, fanno certamente paura e riportano a incubi che credevamo ormai finiti. Beata illusione, la nostra. Beata illusione. L’odio espresso a più voci e raccolto dal discorso del candidato, ora presidente eletto, è da sempre parte integrante del nostro quotidiano espresso nei rapporti di forza contro quella parta della popolazione vulnerabile alla repressione. È un odio in cui il neo presidente ha trovato non solo un appoggio, ma il substrato culturale sul quale basare i suoi trent’anni di vita pubblica. Basta leggere le pubblicazioni del “Clube Militar”. È tutto scritto. Il rifiuto, dei diritti civili conquistati a partire dalla nuova costituzione del 1988, è il denominatore comune di una larga parte della societá in accordo con le gerarchie militari. È tutto scritto: una specie di delirio che vede l’avvicinarsi e il possibile di concretizzarsi della minaccia comunista, nell’azione dei movimenti sociali o nelle marce del Gay Pride; nelle rivendicazioni per la riforma agraria o nell’affermazione dei diritti delle donne. Tutto scritto. Il neo eletto ha bevuto direttamente alla fonte. Ciascuno si fida degli amici che ha: dieci ministri del governo di transizione sono militari, generali in servizio. Il vice presidente è un generale. Tutto quello che non si inquadra nella loro visione di mondo è per loro una minaccia da neutralizzare. Per questo non possiamo fermarci a combattere le affermazioni mostruose di un presidente troglodita, dobbiamo avere ben chiaro quello che sta per accadere davvero: le frasi di effetto, le banalità proferite a bocca piena, le offese, gli insulti, le minacce, distraggono la nostra attenzione dal vero problema.
Per salvaguardare in primo luogo la nostra dignità, e in seguito la possibilità di continuare ad agire politicamente ed esercitare il nostro diritto alla cittadinanza, dobbiamo formare un Fronte Democratico, una barriera all’onda autoritaria. Non possiamo isolarci e soprattutto non possiamo affidarci ai partiti, che per meschine questioni di leadership, danno chiari segni di non voler unirsi tra loro. Dobbiamo formare un fronte democratico civico e far pressione su quegli stessi partiti affinché ci seguano e ci sostengano a livello istituzionale. E per far ciò, per rendere contundente la nostra azione, diventa fondamentale il parlare in modo affermativo. La nostra indignazione, la voglia di denunciare al mondo l’orrore dell’accaduto e di quello che verrà, a lungo andare genera assuefazione, sia nell’opinione pubblica che in noi stessi. Ribadisco quanto detto sopra: la notizia dell’estinzione del Ministero del Lavoro è stata accettata passivamente, ripeto: l’estinzione del Ministero del Lavoro non ha provocato reazioni degne di questo nome. È necessario oggi più che mai tornare alle basi, ai centri sociali, ai collettivi delle periferie e proporre azioni positive concrete attraverso l’affermazione dei diritti. In primo luogo i diritti elementari, all’acqua, le fogne, l’energia elettrica, i trasporti, il servizio pubblico di salute, la facilità di accesso alla scuola. Tutte cose per le quali abbiamo lavorato tutta la vita e che pensavamo risolte ormai da anni. Tornare alle periferie. Solo attraverso la forza popolare potremo realmente far girare la ruota della storia a nostro favore. Attenzione: non è una lotta collettiva. È una lotta individuale, una lotta del singolo, di ognuno di noi. Solamente assumendola personalmente, solamente combattendola singolarmente è che la lotta si trasforma in collettiva. E sarà lunga, lenta e organizzata. Le grandi manifestazioni di piazza servono solo come esplosione periodica di rabbia ma non costruiscono, non amalgamano. Sono lo stoppino che la repressione vuole per costruire la sua narrativa per dipingerci come teppisti e nemici dell’ordine. Non possiamo cadere nell’errore di sempre, nella provocazione che ci vuole sovversivi quando chi ha sovvertito l’ordine democratico sono stati loro. Dobbiamo occupare ogni spazio, costruire e organizzare le nostre istituzioni, il nostro tempo spicciolo, dalle università al caffè con gli amici al bar; dai luoghi di lavoro alla conversazione con la vicina di casa in ascensore. Dobbiamo costruire uno spazio di pensiero che produca risposte e le divulghi. E per conversare è necessario prima di tutto saper ascoltare, e sapersi muovere in modo capillare. Se negli anni sessanta e settanta era la chiesa cattolica ha costruire coscienza attraverso l’azione delle comunità di base, oggi la chiesa è stata fagocitata dalla capillarità delle sette evangeliche pentecostali, fondate sulla “teologia della prosperità”. I culti di invocazione al successo economico in cambio di offerte ai pastori, alimentano il mito meritocratico mediante la relazione individuale col divino e distruggendo ogni dimensione orizzontale di “popolo di Dio”. Ebbene, si fa necessario entrare in questo universo ostile fatto di ricatti teologico-mistici, un universo impregnato del culto borghese alla meritocrazia, che ha impregnato perfino le frange più carenti della nostra popolazione, una specie di self made man brasilianizzato, ma che offre risposte immediate a domande concrete. Dobbiamo dimostrare il fallimento di tutto questo, ripartendo dal basso, dall’uso del diritto quotidiano del nostro ruolo di cittadini. Dobbiamo ricostruire la democrazia, dalle fondamenta. Dobbiamo reinventare il nostro linguaggio che insieme all’uso dei simboli nazionali è stato usurpato e deturpato. Il totalitarismo neoliberista considera le istituzioni come una impresa, le giudica in termini di efficienze e di produzione. Lo scopo è la privatizzazione dello Stato. Tutto ciò parte attraverso la dequalificazione della politica. Come possiamo spiegarci altrimenti che le periferie miserabili abbiano votato -prima come sindaco, poi come governatore – per un ricco imprenditore che si presenta dicendo: io non sono un politico, io sono un gestore. La creazione di una crisi permanente, è il loro più grande successo di critica e pubblico. Tocca a noi dire la verità, mostrare a tutti che il re è nudo.
Un giorno questa lotta avrebbe dovuto accadere. La Storia ha voluto che fossimo noi i protagonisti, l’ultima barriera. La nostra responsabilità è immensa e non possiamo tirarci indietro. Loro pensavano di avere il cammino spalancato. Ma non sapevano di avere davanti il loro avversario più duro: ciascuno di noi.
Ho raccolto in questo che ho scritto fin qui, senza alcuna autorizzazione, le parole e i concetti di Paul Singer, Vladimir Safatle e Marilena Chaui espressi nel dibattito “Costruire la Resistenza” avvenuto all’Università di São Paulo il primo novembre scorso. Ho aggiunto inoltre affermazioni e frasi mie personali. Il risultato di tutto questo sono le righe di cui sopra. Spero che i professori citati non me ne vogliano.