Insegni italiano per stranieri al Centro Provinciale di Istruzione per Adulti (CPIA) di via Colletta, a Milano. Che cosa ti ha spinto a compiere questa scelta?

Ho fatto il maestro elementare per quindici anni e poi ho trascorso un lungo periodo all’estero, prima a Sao Paulo e poi a Barcellona. Prima di partire ho insegnato italiano per stranieri a San Vittore. E’ stata un’esperienza forte e interessante e quando sono tornato, un anno fa, ho deciso di rimanere in questo campo.

Che tipo di persone arrivano ai corsi? 

Sono soprattutto giovani uomini provenienti dai centri di accoglienza, in maggioranza dell’Africa sub-sahariana e donne nordafricane sposate che sono qui da tempo e sentono il bisogno di imparare finalmente l’italiano. Poi ci sono sudamericani e asiatici, provenienti da Bangladesh, Sri Lanka, Cina, tutti maggiori di 16 anni e in possesso di un permesso di soggiorno valido o della richiesta di asilo. Ogni tanto arriva qualche europeo. I corsi si svolgono in genere tre volte alla settimana e durano ogni volta due ore e mezzo. Al momento dell’iscrizione facciamo un test per stabilire il grado di conoscenza della lingua di ogni studente. La maggioranza di quelli che si presentano vengono inseriti nei livelli medio-bassi.

I corsi sono gratuiti?

Di fatto sì. Chi può paga 30 euro all’anno. Chi viene da una comunità di minori o da un centro di accoglienza può contare sul loro sostegno finanziario.

I tagli all’accoglienza decisi dal decreto sicurezza potrebbero influire sulla vostra attività?

Sì, anche se in modo indiretto. C’è il rischio concreto che i centri di accoglienza, in seguito ai tagli, non possano più tenere corsi di alfabetizzazione. E questo si ripercuoterebbe su di noi. Se poi molti immigrati si ritroveranno nella condizione di clandestini, non potranno più iscriversi ai nostri corsi. Già ora vediamo gli effetti del calo degli arrivi: l’anno scorso c’erano lunghe lista d’attesa, quest’anno quasi niente.

Che cosa ti proponi con i tuoi studenti, al di là del mero insegnamento della lingua?

Il primo obiettivo è rendere piacevoli le ore passate a scuola, divertirsi insieme mentre si impara. Insisto molto anche sulla motivazione: imparare l’italiano è un’arma che devono avere per difendersi, il primo requisito per trovare lavoro, ma anche un gesto d’amore verso il nuovo mondo dove si arriva cambiando paese. La scuola è anche un momento liberatorio, soprattutto per le donne che così escono di casa e un’occasione di esprimersi, di superare paure e resistenze, di aiutarsi e ascoltarsi a vicenda. Ci mettiamo in gioco, cercando di rompere le rigidità, di superare i blocchi emotivi che tutti ci portiamo dietro. I banchi sono in cerchio e, una volta costruita una relazione, riusciamo ad affrontare anche temi impegnativi, come la religione, gli amori, i rispettivi “usi e costumi”, mettendoli a volte in discussione.

Un esempio interessante in questo senso è stata la gita a Camogli per “fare pace con il mare”

Sì. La maggior parte di loro è arrivata in Italia con i barconi e si porta dietro esperienze drammatiche, di cui parla poco. Per molti di loro il mare è sinonimo del viaggio terribile che hanno fatto e da lì è venuta l’idea di una gita che potesse cambiare quell’immagine.

C’era il problema del Ramadan, che andava da metà maggio a metà giugno e quindi la gita andava organizzata dopo. A quel punto però la scuola era finita e c’erano meno contatti tra di noi. Alla fine abbiamo scelto il 21 giugno, il giorno del solstizio, perché ci sembrava di buon augurio e abbiamo organizzato tutto in modo “informale”, anche per evitare possibili complicazioni burocratiche. Abbiamo affittato un pullman perché il treno era troppo costoso. L’abbiamo pagato facendo cento magliette a batik e vendendole quasi tutte prima del viaggio. Fino all’ultimo non ero sicuro di quanti studenti avrebbero partecipato, non sapevo se l’esperimento avrebbe funzionato e avevo un certo timore che fallisse. Alla fine sono venuti in 30, tutti ragazzi africani, tranne un giovane kossovaro. Erano felici ed emozionati; molti di loro non sapevano nuotare, ma una volta arrivati in spiaggia, a Camogli, ci siamo buttati, a poco a poco, tutti in acqua.

Era un giovedì e quindi non c’era molta gente. In ogni caso io ho spiegato ai villeggianti che quella era la gita di una scuola e io ero il loro insegnante. Credo che questo abbia avuto un effetto rassicurante. Vari bagnanti si sono avvicinati, hanno parlato con i ragazzi e comprato le ultime magliette. Insomma, è stata un’esperienza gioiosa. Ha fatto bene a tutti. Anche all’indispensabile gruppo di amici-volontari che hanno partecipato attivamente.

Ci sono altre iniziative che potrebbero contribuire all’integrazione di chi frequenta i corsi?

Sicuramente. Spiace per esempio vedere che pochi studenti, al di fuori della scuola, hanno occasione di parlare con italiani; in genere rimangono tra loro. Sarebbe bello importare un’esperienza che ho vissuto a Barcellona, quella delle “coppie linguistiche”: qui potrebbero esserci dei volontari, per esempio pensionati con molto tempo libero, che, al margine dell’orario della lezione, facciano conversazione con questi giovani immigrati, in un rapporto uno a uno che facilita la comunicazione e la conoscenza. Certo, bisognerebbe superare difficoltà burocratiche per far entrare queste persone nella scuola e magari fare loro un po’ di formazione, ma credo che questo sarebbe anche un modo in più per arginare l’ondata di razzismo e di paura del diverso che sta dilagando in Italia e non solo. Avvicinarci, conoscerci, riduce pregiudizi e timori che in fondo tutti possiamo avere. E l’italiano si imparerebbe più in fretta.