L’età – implacabile nel decretare la fine della vita per chi ha avuto la fortuna di non vedersela stroncare dalla violenza o dalla malattia – ha privato il mondo di una delle menti più lucide e oneste del sionismo.

Sionismo, termine che fa tremare le vene ai polsi ai tanti attivisti filo-palestinesi che in esso vedono solo razzismo o suprematismo fascistoide. In realtà hanno ragione se si prende il sionismo per quel che è nella sua pratica generale, ma non hanno ragione se prescindono da quella che è una delle caratteristiche fondamentali che determinano il sionismo stesso, e che figure quali Jeff Halper o Gideon Levy hanno abbracciato, cioè il sostenere giusta l’esistenza dello Stato di Israele all’interno della Palestina storica e, in alcuni casi,  lo scegliere di  diventare israeliani pur venendo da altre parti del mondo, cittadinanza acquisita semplicemente in quanto ebrei grazie a una delle due leggi fondamentali dello Stato di Israele che è la cosiddetta “legge del ritorno”.

“Ritorno” già in sé comporta un’arrogante pretesa e la base di una menzogna, ma fu la geniale trovata di Theodor Herzl, il padre del sionismo, appunto, ad essere vincente e a modificare il corso della storia nella terra di Palestina.

Se il luogo in cui far nascere lo Stato per gli ebrei fosse stato in Africa o in America Latina, come pure ipotizzato prima della scelta finale, estremamente comoda per il colonialismo europeo del secolo scorso, forse non ci sarebbe stata una “legge del ritorno” perché l’evocazione biblica non sarebbe stata tanto efficace, ma non lo sappiamo. La Storia del resto non si fa con i se o con i ma.

Il fatto è che Israele non ha ancora una vera legge costituzionale, perché la costituzione implica i confini dello Stato e sappiamo bene che Israele quei confini li ha in testa in modo molto lontano dalla Risoluzione Onu 181 cui si aggrappa per legittimare la propria nascita e alla quale, invece, non ha mai portato rispetto né l’ha mai riconosciuta, a partire dall’autoproclamazione dello Stato decretata da Ben Gurion poco prima della scadenza del Mandato britannico e, quindi, prima che la Risoluzione 181 divenisse giuridicamente operativa.

Ma al di là degli interessi imperialisti c’è da considerare, come fattore sociale, cosa potesse significare per un ebreo dopo la Seconda guerra mondiale e i campi di sterminio (ma anche dopo i ricorrenti progrom nella storia) avere un proprio Stato in cui sentirsi sicuro.

Su questa retorica, che però si fonda su basi concrete e che, solo per citare i momenti e le figure europee più rilevanti che già durante la Prima guerra mondiale hanno avuto il loro peso –  come gli accordi Sykes-Picot nel 1916 e la dichiarazione Balfour nel 1917 – è venuta a crearsi l’idea che lo Stato di Israele, all’interno della Palestina e per di più cacciando i palestinesi, cosa non prevista né dalla Risoluzione 181 né dalla dichiarazione Balfour, fosse un sacrosanto diritto del cosiddetto “popolo ebraico” che veniva di fatto a crearsi raccogliendo sefarditi e askenaziti, arabi, europei, americani e altri, unificati dalla fede religiosa e non certo dalla nazione di provenienza.

Uri Avnery fu uno di quelli e lo fu prima della grande tragedia della Seconda guerra mondiale. Tedesco, nato nel 1923 nella cittadina di Beckum nella Renania ed emigrato con la sua famiglia in Palestina quando Hitler andò al potere. Aveva solo 10 anni e non fu facile quel periodo visto che la sua famiglia aveva perso ogni ricchezza nella fuga dalla Germania nazista. Il giovanissimo Helmut, diventato poi Uri divenne un potenziale israeliano prima che si costituisse Israele.

Aveva solo 15 anni Helmut-Uri quando si arruolò nell’Irgun, la famigerata organizzazione paramilitare guidata da Menachem Begin autrice di azioni di  terrorismo ebraico delle peggiori, tra le quali si ricorda anche la strage al King David Hotel di Gerusalemme del 1946. Ma Uri ne era già uscito da quattro anni, cioè da quando aveva visto che le azioni dell’Irgun non andavano verso l’indipendenza dagli inglesi ma soprattutto erano focalizzate contro gli arabi. Sionista convinto, ma contrario alla pratica terrorista dell’Irgun, Uri Avnery abbandonò quindi molto presto la formazione che poi avrebbe dato lustro a Begin.

Ciò non gli impedì di partecipare alla guerra contro gli arabi nel 1948/49, ma non gli impedì neanche di vedere e raccontare le atrocità commesse contro i palestinesi che raccontò nel suo libro “Il rovescio della medaglia”. Libro che lo fece odiare da tanti ebrei, anche italiani e non solo israeliani, che definirono tradimento  la sua onestà intellettuale e morale.

Quest’uomo, che pur restando sionista fu un grande amico del popolo palestinese, fu tra i fondatori di un importante movimento pacifista e fu un grande e lucidissimo giornalista, oltre che scrittore. Trovando poco efficace Peace Now ne uscì e fondò Gush Shalom, movimento pacifista più radicale, senza mai abbandonare la sua visione “sionista” di ebreo che credeva giusta l’esistenza dello Stato ebraico accanto ad uno Stato palestinese.

Chi scrive andò a trovarlo a Tel Aviv nel 2011, ma aveva appena perduto l’amatissima moglie e non aveva voglia di parlare di politica, per cui l’incontro avvenne con un altro rappresentante di Gush Shalom, più giovane ma altrettanto convinto delle sue stesse idee e altrettanto critico verso Israele, Adam Keller. Adam Keller raccontò che sua madre, una donna ultraottantenne e claudicante, in una manifestazione a sostegno dei diritti del popolo palestinese venne strattonata, picchiata e vilipesa dai soldati israeliani. Una piccola cosa rispetto a ciò che subiscono ogni giorno i palestinesi, e questo era chiaro ad Adam Keller, il quale comunque ci tenne a mettere l’accento sull’episodio per dire che non era certo questo l’Israele che lui, Uri Avnery ed altri convinti assertori dell’esistenza dei due Stati avevano in mente.

In Italia i suoi articoli venivano tradotti e pubblicati dal Manifesto, giornale in qualche modo “di nicchia” e leggerli è sempre stato vero cibo per la mente. Lucido e logico nelle sue riflessioni, Avnery, già oltre 30 anni fa, mentre il mondo si prodigava in inchini e apprezzamenti che poi si rivelarono ingiustificati, proprio in un articolo pubblicato dal Manifesto definì Perez “Una menzogna che cammina”. Articolo che chi scrive portò in lettura ad un’amica ebrea di sinistra avendo in cambio l’esclamazione disperata di nascondere subito quel giornale perché in casa sua, ebrei di sinistra, era vietato anche solo pronunciarlo il nome di Uri Avnery.

Questo è solo un aneddoto, che unito a quello di Adam Keller potrebbe aiutare a far capire quanto lavoro c’è da fare per arrivare veramente a quella pace giusta al cui raggiungimento Avnery ha dedicato la vita.

L’essere stato un parlamentare della Knesset per tre legislature, fino al 1981 non lo ha salvato dalle invettive e dall’ostruzionismo delle istituzioni e del popolo israeliano sionista. Sionista nell’accezione che abitualmente si dà al termine e che i governi Netanyahu hanno notevolmente incrementato. Ma già quando nel 1982 incontrò Arafat, si dice che  il grande nemico del presidente palestinese, Ariel Sharon, avesse tentato  di utilizzarlo per eliminare Arafat dando indicazioni al Mossad di “adempiere al loro compito” anche se questo avesse comportato la morte di Avnery che andava a intervistarlo. Lo raccontò proprio Avnery, sionista di stampo diverso da Ariel Sharon, congratulandosi con i servizi palestinesi per aver scampato il pericolo.

Con lui oggi non sparisce solo una grande mente, ma una mente capace di mettere in contraddizione le più grandi e le più piccole cose, come ad esempio le decisioni liberticide della Knesset israeliana circa la pratica di boicottaggio degli attivisti filo-palestinesi con analoga decisione della Knesset a favore del boicottaggio di un certo prodotto alimentare che danneggerebbe analogo prodotto di fabbricazione israeliana. Ma Uri Avnery era veramente una mente scomoda, una mente che la falce della morte ha portato via con sé avendo raggiunto i 94 anni e che fino all’ultimo ha conservato lucidità, forza e determinazione.

Come racconta Adam Keller nel suo triste comunicarne la scomparsa, Avnery è collassato alcuni giorni fa tornando a casa dopo aver partecipato alla manifestazione contro la “nation state law” e dopo aver scritto un duro articolo contro quella legge.

Fino all’ultimo respiro Uri Avnery è stato coerente. La sua scelta di ebreo che non ha mai respinto l’esistenza dello Stato di Israele, sognandolo però democratico e rispettoso dei diritti dei palestinesi ai quali si “doveva” (e non si doveva concedere) il proprio Stato, lo ha accompagnato fino alla morte. Qualcuno lo ha definito un visionario perdente ma, come dice Adam Keller, suo ideale portavoce e successore in Gush Shalom, “i più grandi avversari di Avnery dovranno seguire le sue orme – perché lo Stato di Israele non ha altra scelta reale.”

Se sarà così o meno non lo sappiamo, ma sappiamo che Israele ha perso la mente  lucida di un ebreo israeliano di sinistra, fortemente critico e anche per questo valido ostacolo contro la deriva barbarica della destra estrema. E anche i palestinesi hanno perso un amico, benché fosse un convinto sionista, tanto convinto e tanto aperto alla dialettica politica da mandare il suo articolo settimanale anche a chi non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele. Perché Avnery era una di quelle figure, sempre più rare, che riconoscono nell’avversario onesto un possibile collaboratore indiretto nel grande disegno di una società più giusta.

A chi scrive, pur essendo contraria al sionismo anche nell’accezione di Uri Avnery, mancherà molto il suo contributo. Altri invece ringrazieranno la falce della natura per aver spento una voce che ancora a 94 anni aveva la capacità di battersi contro chi viola sistematicamente i diritti umani, sebbene nello specifico si tratti dello stesso paese che sentiva come propria patria. Avnery usava dire che “la differenza tra un combattente per la libertà e un terrorista dipende solo dalla prospettiva con cui si guarda”. Questo non è l’accettazione del terrorismo ma il riconoscimento e la stima per chi combatte per la libertà.

Che la terra ti sia lieve, grande combattente.