Il Mar Mediterraneo è sempre stato al centro della nostra storia tanto da essere stato più volte definito, nel corso dei secoli, come Mare Nostrum – il “nostro mare”, termine coniato nell’antica Roma e ripreso poi dal governo fascista per promuovere la costruzione di un impero coloniale italiano d’oltremare. Nell’uso contemporaneo, il termine è stato invece più volte usato per valorizzare la diversità gli scambi e la cooperazione tra le nazioni del Mediterraneo,e con questa espressione si è anche denominata l’importante operazione, curata dal governo italiano, di salvataggio in mare dei migranti a seguito del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.

Oggi nell’immaginario comune, il Mar Mediterraneo è soprattutto sinonimo di “sbarchi”, “invasione”, “clandestini” con un linguaggio che richiama i toni populisti che trovano eco un po’ in tutta Europa. Tendiamo invece a dimenticare che il Mediterraneo, il “nostro mare” con la sua diversità di popoli è anche una risorsa.

Dieci anni fa, i capi di stato e di governo dei paesi Europei e del Mediterraneo fondavano l’UpM-Unione per il Mediterraneo, coinvolgendo 43 paesi in una partnership per affrontare le sfide comuni della macro-regione inerenti lo sviluppo economico e sociale, il degrado ambientale e il cambiamento climatico, le migrazioni, il dialogo tra culture. Alcune buone pratiche di cooperazione Euro-Mediterranea di questi 10 anni sono presentate sul sito dell’UpM. Tra queste, un progetto promosso dall’Università di Siena con un finanziamento del Programma europeo Interreg- Med per prevenire, ridurre e rimuovere i rifiuti dal Mar Mediterraneoedil progetto HOMERe che promuove la mobilità di studenti universitari tra i paesi del Mediterraneo, inclusa l’Italia, per migliorare competenze e qualifiche e favorire l’occupabilità, in una regione dove la disoccupazione giovanile spesso aumenta con il livello di istruzione.

L’8 ottobre a Barcellona, nel corso dell’incontro annuale dei Ministri degli Affari Esteri dei paesi membridell’UpM, si farà il punto sui dieci anni di cooperazione Euro-Mediterranea. Recentemente, a luglio 2018, l’Unione per il Mediterraneo ha supportato la nascita della Rete Euromed per la ricerca sulle migrazioni(EuroMedMig-ReNet), nata durante la XV Conferenza annualedel network International migration, integration and social cohesion (Imiscoe), importante piattaforma che aggrega gli istituti di ricerca di entrambe le sponde del “Mare Nostrum” nel campo delle migrazioni e dell’integrazione. La nuova rete Euromed – sottolinea l’UpM – punta a indagare sulle origini e le interdipendenze dei movimenti migratori che negli ultimi anni hanno interessato il “Mare nostrum”. L’obiettivo è quello di tracciare una linea d’azione comune per affrontare gli aspetti critici legati alle migrazioni che costituisca al contempo sintesi delle suggestioni emerse dal dialogo interregionale e chiave di lettura del fenomeno immigrazione visto non più come criticità da subire ma come opportunità da cogliere.

Auguriamo quindi buon lavoro a questo neo-nato organo anche perché gli ultimi dati diffusi dall’UNHCR, l’agenzia dell’ONU che si occupa di rifugiati, non sono affatto buoni e denunciano come la mancanza di un approccio collaborativo nel Mediterraneo stia facendo aumentare vergognosamente il numero dei morti in mare.Nei primi sei mesi dell’anno in Italia sono arrivati circa 16mila richiedenti asilo. Sono numeri in calo dell’80 per cento rispetto ai primi sei mesi del 2017, che segnalano un ritorno sui livelli degli anni precedenti al 2014, prima che iniziasse l’ultima grande crisi migratoria, quando gli sbarchi raramente superavano le poche decine di migliaia di persone l’anno. Ma compiere la traversata è sempre più pericoloso: a giugno è morta una persona ogni sei che ci hanno provato.“Nel Mediterraneo l’anno scorso moriva 1 persona su 39, quest’anno 1 su 6” ha denunciato Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’UNHCR.

In particolare, l’ teme le conseguenze di una diminuzione delle capacità di soccorso poiché le imbarcazioni vengono dissuase dal rispondere alle richieste di soccorso per paura di vedersi negato il permesso di sbarcare le persone tratte in salvo. In particolare – riporta l’UNHCR – le ONG hanno espresso preoccupazione per le restrizioni imposte alle loro capacità di condurre operazioni di ricerca e soccorso a seguito di limitazioni ai loro movimenti e alla minaccia di potenziali azioni legali. Non solo le ONG sono state di fatto allontanate, ma anche le navi commerciali hanno meno incentivi ad effettuare i salvataggi visto che rischiano di vedersi negato il permesso di raggiungere un porto italiano e rischiano così di trovarsi bloccate per giorni (è accaduto anche a navi militarianche italiane).

L’UNHCR ribadisce l’appello lanciato nelle ultime settimane insieme all’OIM – Organizzazione Internazionale Migrazioni – ad adottare un approccio  collaborativo e regionale rispetto alle traversate del Mediterraneo, che fornisca linee guida chiare e prevedibili per la ricerca, il soccorso e lo sbarco.

 

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