Articolo di Stefania Battistini e Ivan Grozny

 

Osman Kifa ci corre incontro, il suo volto spunta da una saracinesca crivellata di proiettili di AK47. “È stato Isis a sparare, quando ha cercato di prendersi Kobane. Vedete? – ci chiede mostrandoci un documento – Io sono nato qui, da anni ho il passaporto tedesco, avevo un buon lavoro in Germania, ma sono tornato per ricostruire il Rojava. È qui che voglio essere”. Osman è una delle prime persone che incontriamo nel Nord della Siria, dopo essere atterrati a Erbil, Iraq e da lì aver attraversato il confine con una barca a Fish Khabur, poi 800 chilometri tra città attaccate in questi anni dagli uomini del Califfato. Più volte in questo lungo viaggio ci siamo imbattuti nei luoghi in cui i miliziani islamisti hanno torturato e ucciso la popolazione inerme: gabbie o semplici pali delle luce rimasti lì, in mezzo alle piazze, come memento. Nonostante la morte e il terrore Osman è tornato. Nei suoi occhi troviamo tutta l’anima dei curdi, l’unico popolo che ha combattuto – stivali a terra – contro i jihadisti dello Stato Islamico, prima che la coalizione a guida americana li sostenesse via aerea. Occhi in cui si legge la capacità di rinunciare a qualsiasi cosa – anche a una vita comoda e sicura in Europa – per un valore più alto e più grande. “Volevamo liberare non solo la nostra terra, ma il mondo intero dagli estremisti di matrice islamista – racconta – In Siria, dove sono riusciti a prendere il potere, hanno costretto le donne a coprirsi il volto, hanno tagliato la testa in piazza a tutti coloro che rifiutavano di sottomettersi. A Kobane, però, non ce l’hanno fatta, non sono riusciti a sconfiggerci”.

La resistenza di Kobane – quei 4 mesi di eroici combattimenti – l’hanno resa universalmente il simbolo della lotta contro Isis. Era luglio 2014 quando i miliziani del Califfato entrarono in città attraverso la Turchia. Oggi – come in quei giorni – la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella a cinque punte sventola sul confine. Qui tutti ancora si chiedono come il più grande esercito della Nato possa non essersi accorto di nulla. “Erano in migliaia”, ricorda Rohat, un soldato dello YPG, di fatto – insieme al suo braccio femminile, lo YPJ – la forza armata del Kurdistan siriano. Gli jihadisti l’avevano presa d’assedio prima a luglio, poi di nuovo a settembre, a ottobre, detenevano il controllo dell’80% del territorio. Lo YPG, non si è mai arreso e poi, con l’aiuto dei bombardamenti Usa, a gennaio, li ha costretti a ripiegare. Una vittoria grazie alla quale i curdi hanno poi unificato i cantoni di Kobane e Qamishli, tagliando agli uomini di Daesh l’accesso al confine con la Turchia a nord della sua capitale in Siria, Raqqa, un passo fondamentale nella guerra contro Isis.

Per chi durante quei giorni di giugno 2014 si trovava qui (Kobane dentro. Diario di guerra sulla difesa del Rojava, di Ivan Grozny Compasso, ed. Agenzia X), è un’emozione indescrivibile vederla tornare a vivere. “Lo Stato Islamico aveva distrutto tutto, non c’erano né acqua né elettricità, scuole e ospedali erano stati rasi al suolo – dice Enver Muslim, co-presidente della Regione Eufrate Kobane – A ottobre abbiamo iniziato a ricostruire, ormai l’80% della città è stata liberata dalla macerie e siamo riusciti a risolvere almeno parzialmente l’emergenza acqua ed elettricità. Tutto con le nostre risorse”.  Sì, perché gli aiuti promessi per la ricostruzione non sono mai arrivati: “c’è stato il sostegno internazionale alla resistenza – continua – ma i tanto promessi fondi per ricostruire sono rimasti solo promesse sulla carta. Quello che oggi vedete rinascere, poco a poco, è grazie alla volontà dei cittadini che sono tornati e alla solidarietà dei popoli, non certo degli Stati e dei Governi”. Coraggio e tenacia di un popolo che oggi può finalmente ritrovarsi in strada, la sera, libero. Anziani, famiglie, uomini, ragazze col velo, ragazze coi capelli sciolti e i jeans attillati. “Volete un caffè, una bottiglia d’acqua, un pasticcino?”, ci chiedono in tanti, mentre passeggiamo. Tutti con la voglia di raccontare questa storia di rinascita. Un papà con la tunica bianca tiene in equilibrio la sua piccola di due anni sul palmo di una mano; sembra una ballerina, tutti ridono attorno a lui. Ci sono tanti bambini, segno che qui non si è mai smesso di sperare. “Per noi i piccoli e la loro istruzione sono la priorità – afferma con orgoglio Enver Muslim – Dopo la liberazione c’erano solo 13 studenti in una scuola, mentre adesso sono attivi ben 900 istituti solo nel cantone di Kobane. Nell’intera regione dell’Eufrate si contano 4 mila insegnanti e centodiecimila bambini”.

Si guarda al futuro, senza mai cercare di rimuovere il passato. Per questo i curdi hanno deciso di trasformare il campo di battaglia in un museo a cielo aperto. Le armi usate dagli jihadisti sconfitti sono state lasciate lì: pezzi di artiglieria russa – molti Obice D30, prima in mano all’esercito di Assad, poi utilizzate da Daesh -, accanto diversi carri armati e ferraglie di auto. “Con i carri Isis entrava in città – spiega Rohat, il soldato YPG responsabile del museo – le auto, invece, le usavano per farsi esplodere”. Su ogni edificio semidistrutto troviamo un manifesto che vieta di toccare peluche e giochi per bambini: Isis dietro di sé aveva lasciato un campo di mine, nascondendole nel modo più infame. Rohat ci mostra agli angoli delle strade cartelli con nomi scritti a pennarello: “Sono i compagni caduti per combattere Isis”. Sono centinaia i morti. Tanti caduti mentre disinnescavano le mine nel terreno: “Abbiamo fatto da soli – racconta Enver Muslim – con l’Asayish, il corpo di polizia del Rojava, e il reparto speciale bonifiche dello YPG. Qui le organizzazioni internazionali sono arrivate, hanno scattato qualche foto, fatto alcune riprese e se ne sono andate via. Ormai la città è sicura, ma il reparto speciale dello YPG in pratica non esiste più perché sono morti tutti cercando di neutralizzare le mine”.

Le perdite nelle milizie di YPG e YPY non si possono esaurire nella conta dei numeri. È lacerante osservare il Cimitero dei Martiri: una distesa infinita di lastre di marmo con le foto di uomini e donne, giovanissimi, morti per liberare la Siria da Isis. È sabato, ci sono moltissime persone. Il nostro sguardo incontra quello di due donne impegnate a sradicare le erbacce da una tomba: sono la madre e la moglie di Osman, morto a 32 anni mentre combatteva contro il Califfato. La più giovane indica una bambina: “lei aveva solo nove mesi quando suo padre è stato ucciso – si sfoga, mentre con le dita cerca di frantumare i grumi della terra – vorrei che sotto la sua foto nascessero i fiori”. Poche lapidi più in là, c’è un’altra donna. Ci chiama, ci chiede di guardare la foto di suo figlio, classe 1996: “Dopo aver liberato Kobane aveva deciso di partire per aiutare la gente di Mumbij, lo hanno ucciso lì – racconta – Se cammini in mezzo alla gente, qui al Cimitero dei Martiri, ti accorgerai di quanto è arrabbiata. Abbiamo perso molto. Il nostro cuore soffre… e credo anche il vostro soffra a vedere questa tragedia”. Dietro di noi, soltanto tombe a perdita d’occhio.

“Difficile dire quanti morti ci sono stati – dice ancora Enver Muslim – è impossibile fornire una cifra globale. Secondo lo YPG durante l’assedio sono caduti più di mille combattenti, donne e uomini. Senza contare il massacro di civili del 25 giugno 2015 quando quattro macchine dello Stato Islamico sono entrate in città dal confine turco, gli uomini travestiti con la divisa dello YPG. In pochi giorni hanno ucciso 251 persone: sono entrati nelle case, hanno tagliato la gola a chiunque incontrassero. Alcuni bambini si sono salvati, nascosti dai cadaveri dei genitori”. I superstiti saranno accolti nella Casa degli orfani, una struttura appena terminata che si chiamerà l’Arcobaleno di Alan, il bambino annegato nella traversata verso l’Europa, la cui immagine è diventata simbolo della tragedia dei profughi. Un progetto voluto dal Comitato di Ricostruzione di Kobane e da UIKI, l’Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia e finanziato anche dalla provincia di Bolzano, proprio per dare un primo sostegno a quei quasi mille bambini che hanno perso la madre o il padre nella guerra a Kobane.

“Abbiamo bisogno di aiuti per rinascere – afferma Enver Muslim – La nostra gente ha combattuto non semplicemente per difendere un pezzo di terra, ma per i valori dell’umanità”. Un appello alla solidarietà internazionale. Proprio ora è necessario continuare a parlarne – così come Articolo 21 ha sempre fatto – perché la guerra qui non è finita, sebbene sia finita.

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