Da Belgrado “La Serbia deve risolvere il problema del Kosovo oppure ci aspetta il fallimento”, con queste parole il presidente serbo Aleksandar Vucic riassume la sfida più grande che Belgrado dovrà affrontare nel prossimo anno. Un aut aut che riguarda la più annosa questione nazionale serba, nonché la più importante disputa territoriale ancora aperta nei Balcani.

Il riconoscimento legale dell’indipendenza della sua ex provincia potrebbe dare il via a un più rapido processo di integrazione della Serbia nell’Unione Europea, o almeno è così che da mesi viene presentata sui media serbi la questione politica che tiene impegnati i vertici della politica serba.

Il presidente Vucic sa che si tratta di una decisione che non si può più rimandare ma che determinerà anche il suo futuro politico. Le conseguenze potrebbero costargli molto care ed è per questo che si sta giocando tutto il suo repertorio di martire melodrammatico che si sacrifica per il bene della nazione.

Verso un referendum?

Mentre il presidente è consapevole che una completa integrazione nell’UE non può avvenire se non con una chiara definizione dei confini nazionali, l’elettorato potrebbe non perdonargli il “tradimento della patria” con il riconoscimento dell’indipendenza della terra che da sempre tiene vivo il mito nazionale serbo.

Infatti, secondo un recente sondaggio condotto dall’Istituto per gli Affari Europei di Belgrado, l’81% degli intervistati ha dichiarato di non essere favorevole ad un riconoscimento del Kosovo anche se questo comportasse un’accelerazione del processo di adessione all’UE della Serbia.

“La caratteristica principale dei rapporti tra Belgrado e Pristina è l’inesistenza di leader in entrambe le società che siano pronti a risolvere in via definitiva il rapporto tra serbi e albanesi, in quanto questo nuocerebbe alle loro politiche nazionaliste sulla base delle quali sono giunti al potere e sulla base delle quali qui vi rimangono”, ha dichiarato per East Journal Naim Leo Besiri, direttore dell’Istituto per gli Affari Europei, commentando i dati raccolti. E aggiunge: “Quando il Kosovo smetterà di essere un problema, verranno a galla tutti quei problemi della vita reale, come gli stipendi medi, le pensioni, la sanità e l’istruzione, per i quali i nazionalisti non hanno fin’ora offerto nulla”.

E l’elettorato schierato su posizioni apertamente nazionaliste potrebbe infatti complicare la questione qualora la decisione venisse presa attraverso referendum.

Per quanto ventilato da più parti, non è certo se si arriverà a un quesito referendario sul Kosovo, né quale potrebbe essere la domanda a cui sarebbero chiamati a rispondere i cittadini serbi. Quel che è probabile è che il presidente Vucic presenterebbe l’eventuale referendum come una richiesta di supporto al suo operato politico.

Tra Belgrado e Pristina, le promesse di Bruxelles 

Da quando a Bruxelles è iniziato il cosiddetto processo di normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina non sono mancati momenti di alta tensione. A dire il vero, sono sembrati quasi sempre dei “teatrini” orchestrati ad hoc per compattare i rispettivi elettorati, ma soprattutto per prendere tempo, quello che alla Serbia è necessario per compiere il grande passo. Due “teatrini” esemplari sono stati il treno Belgrado-Mitrovica ricoperto dalle scritte “il Kosovo è Serbia” e spedito verso Mitrovica a inizio 2017, e lo spettacolare arresto del capo dell’ufficio per il Kosovo, Marko Djuric. Entrambi gli episodi hanno portato ad una interruzione dei negoziati mediati dall’UE.

Dal canto suo, Pristina dovrebbe finalmente garantire la costituzione dell’Associazione dei Comuni Serbi, sancita cinque anni fa dagli Accordi di Bruxellex e mai realizzata. Si tratta di una forma di garanzia e tutela per i quasi cinquantamila serbi che abitano il nord del Kosovo (ovvero metà dei serbi rimasti in Kosovo) e che, qualora prendesse vita, potrebbe essere rivendicata come una vittoria della diplomazia di Belgrado.

Per Bruxelles, la completa attivazione degli Accordi rappresenta un punto fondamentale del processo di normalizzazione tra Kosovo e Serbia, entrambi destinati ad entrare nell’UE. Tuttavia, l’Unione Europea si è dimostrata a tratti incoerente sulla questione.
Mentre la strategia per l’allargamento ai Balcani occidentali dello scorso febbraio aveva definito Serbia e Montenegro dei “frontrunner” nella regione, prevedendone un ingresso entro il 2025, al summit di Sofia dello scorso maggio tra membri UE e paesi dei Balcani, la questione dell’integrazione è rimasta ai margini. Il presidente francese Emmanuel Macron si è detto contrario ad un’apertura ad altri paesi, riferendosi all’idea per cui sia prima necessaria una riforma dell’Unione Europea, che mai come negli ultimi due anni sta affrontando diverse crisi, da quella del debito greco a quella del ritorno dei populismi, passando per la crisi dei migranti.
Dunque se pur Vucic si decidesse di riconoscere definitivamente il Kosovo, niente gli garantirebbe al cento per cento una sicura integrazione nel’UE.

Chissà quindi se la questione nazionale dei Balcani troverà finalmente pace in un’Europa che a sua volta sembra sempre più “balcanizzata” e se a guidare il frontrunner della regione sarà ancora Vucic, definito da più parti come garante di stabilità.
Quello che invece è certo è che la politica serba, al netto delle proprie ragioni storiche e culturali, riconoscendo il Kosovo darebbe una grande dimostrazione di maturità politica, nonché di sacrificio dei propri interessi nazionali – come nessun’altro paese europeo è forse stato in grado di fare – andando oltre quel mantra che per decenni si è espresso con la frase “il Kosovo è Serbia”, senza però mai offrire una prospettiva futura alla questione.

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